03 aprile 2015 16:25
Da una diretta di Periscope. (Dr)

Dalla sinistra dello schermo entra un aereo che atterra sulla pista dell’aeroporto di Manchester, altrove una ragazza dall’aria malinconica si rivolge alla telecamera e parla forse in greco, si sistema di continuo i capelli che le finiscono davanti agli occhi. In un’altra diretta, si vede una cavalla che partorisce e in un’altra ancora, sempre con immagini incerte – anche qui l’orizzonte balla –, un uomo a bordo di un’auto indica il paesaggio fuori dal finestrino. Sta dicendo che a Los Angeles fanno sessanta gradi Fahrenheit, e infatti dalle sequenze che volano scomposte oltre il vetro, il sole batte sui grattacieli.

Su Periscope è mattina presto e la luce dilaga e contemporaneamente il sole tramonta ed è anche piena notte: un ragazzo ispanico nel buio della sua stanza avverte l’umanità che non riesce a dormire. Da quando è stata lanciata Periscope, applicazione di Twitter per inviare video streaming dallo smartphone, tutto il mondo è in diretta, ogni cosa accade simultaneamente, in uno stesso luogo, dentro uno schermo. Il mito della simultaneità che ha attraversato tutto il novecento ha trovato la sua incarnazione definitiva. Il caos è servito.

Per cominciare a riprendere è sufficiente, una volta scaricata l’applicazione, toccare l’icona con la telecamera. Si possono avvertire che si sta cominciando una diretta i follower di Twitter, a cui l’applicazione è legata.

Tommaso Marinetti, nel manifesto Distruzione della sintassi – Immaginazione senza fili, scriveva: “Ho ideato inoltre il lirismo multilineo col quale riesco ad ottenere quella simultaneità lirica che ossessiona anche i pittori futuristi”. Marinetti avrebbe amato la simultaneità di Periscope. In quel testo dell’11 maggio 1913 c’era scritto: “Il poeta lancerà parecchie linee parallele parecchie catene di colori, suoni, odori, rumori, pesi, spessori, analogie”. Si augurava un mondo in cui un solo gesto creativo potesse condensare tutte le emozioni possibili senza interruzioni di tempo e spazio.

Con le dirette su Periscope si è realizzato un modo di narrare la realtà che artisti e scrittori inseguono da almeno un secolo.

Ma intanto, comincia un’altra diretta. Persone in coda in una farmacia, allievi che si tuffano in piscina, poi una corsa in auto per le strade di Buenos Aires. Molto spesso, nei video il cielo non è in alto – neanche quello su Central Park – ma occupa la destra dello schermo, perché gli iPhone registrano solo verticalmente e molti si sbagliano ancora con le inquadrature. Di solito le sequenze sbandano, le immagini vorticano, nulla è a fuoco.

Da una diretta di Periscope. (Dr)

La realtà riportata da Periscope è il racconto di un mal di mare planetario (un pianeta trasformato in un interminabile The blair witch project). Più che luoghi e volti compaiono bagliori, grigiori, macchie informi e improvvisi laghi di luci. Le voci si confondono, le forme sgranano, le ombre vincono su tutto. Chi non ha ancora scaricato l’applicazione sullo smartphone può assistere a questo spettacolo anche online. Ora, in un letto, un ragazzo nero a torso nudo ride steso accanto a una ragazza bionda, poi la diretta finisce. Ora, una famiglia felice naviga in barca, su un mare piatto che brilla fino a una fila di alberi forse di un’isola poco distante. La diretta dal museo egizio è appena finita.

Alla fine dell’ottocento molti grandi scrittori hanno smesso di ritenere che i fatti potessero essere narrati secondo una linearità, da un prima a un dopo, da un inizio a una fine. Sarà stata colpa di Albert Einstein, che spiazzò tutti annunciando che il tempo era curvo, sarà stato Sigmund Freud, che insisteva che il passato non muore mai. Fatto sta che dai primi decenni del secolo scorso le grandi trame romanzesche assunsero forme circolari, elicoidali, sviluppandosi lungo linee spezzate e scarabocchi. Marcel Proust dimostrò che passato e presente vivono annidati uno nell’altro. Anche se il presente era assediato dalla memoria. Nel romanzo Alla ricerca del tempo perduto non è possibile lasciarsi gli eventi alle spalle perché ogni atto ha una seconda vita, e ritorna sotto la maschera del ricordo. Nell’epoca di Periscope, dove i video restano online al massimo 24 ore, non c’è più nessuno che desideri mettersi alla ricerca di un passato perduto. Al presente basta già la sua vertigine.

Negli ultimi decenni del novecento, in letteratura, si è tanto parlato del collasso di tempo e spazio e con il postmoderno di: “frammentazione schizofrenica, l’adattamento della psiche umana alla nuova esperienza della molteplicità, della serialità, della proiezione di sempre nuovi punti di vista” (Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno). Architetti, scrittori e artisti postmoderni avvertivano il senso di un eterno presente, con un calo di attenzione verso il passato e il futuro. Ma se nell’arte postmoderna esisteva ancora un atteggiamento nostalgico e onnivoro verso le epoche passate, e il desiderio di evocarle, al tempo di Periscope si assiste alla piena e definitiva rinuncia a qualsiasi ricomposizione della realtà.

Romanzieri come Thomas Pynchon, Don DeLillo, Philip K. Dick, fino a David Foster Wallace, sono sempre stati attratti dall’accettazione del caos, hanno praticato la discontinuità della narrazione, ma non immaginavano che le loro utopie si sarebbero compiute con una applicazione.

Termina la diretta su Periscope di un concerto di violino a Auckland, e un tir fa un sorpasso su una strada della Nuova Zelanda, e un ragazzo con un cappellino da baseball e la barbetta, dall’altra parte del globo, declama una poesia sullo shampoo. Se il modo in cui le frasi spezzate e confuse di Twitter ricordavano la tecnica del flusso di coscienza sperimentata da James Joyce nell’Ulisse, con Periscope il flusso ha perso ogni direzione, i rivoli corrono senza rotta da ogni angolo del mondo – basta qualcuno pronto a dare vita a una diretta per far partire il flusso. Periscope è dunque il compimento di un sogno e di un incubo che ha abitato a lungo nelle menti di tanti artisti. Periscope ha annichilito Proust, ha scavalcato Joyce, ha fatto impallidire Pynchon e tutti i vecchi postmoderni.

La metà in basso della schermata di Periscope vista da un iPhone – per poter installare la versione Android dell’applicazione bisognerà aspettare ancora un po’ – è occupata da una chat in cui le persone che seguono la diretta possono fare domande e commentare. Sul resto dello schermo è tutto uno scorrere di cuori lasciati dalle persone in base al gradimento della ripresa (sono i nuovi like di Facebook, le nuove stelline di Twitter, i cuori di Instagram). Emily Skye avvia una diretta perché è l’ora del caffè. Una ragazza italiana dice allo schermo: “vorrei tantissimo essere in un posto tipo Sicilia o Sardegna perché io amo il mare. Chi è che mi dice amore mio? Oh I’m sorry, I’m italian”.

La parola voyeurismo ha perso di significato in meno di una settimana. Le vite degli altri sono tutte consultabili, in tutte le finestre del mondo c’è la luce accesa. Si sta su un tram a Helsinki, si sta ai piedi dei palazzi di Bogotà, si sta sotto la Freedom Tower, ecco le inevitabili piramidi d’Egitto. Ma si sta soprattutto oltre le tende delle case private.

Da una diretta di Periscope. (Dr)

Il primo classico della narrazione simultanea di Periscope è la cosiddetta “febbre da frigorifero” per le frequenti inquadrature ai piani del frigo, con sempre tanto tofu e molti surgelati da smaltire. In questi primi giorni, tantissime dirette conducono in luoghi riservati, nel mondo dei divani, dei computer accesi sulle scrivanie, dei letti sfatti prima di dormire, tra tappeti su piastrelle fuori moda e un esercito di armadi senza colore. Si dovrebbe riscrivere di corsa la storia degli spazi privati, quella che comincia dal seicento e arriva fino alla diretta di un ragazzo che su Periscope riprende la fidanzata mentre dorme.

Bisognerebbe rileggere lo spazio riservato e felice di Jane Austen per capire bene cosa accade oggi, ritornare alle tappezzerie e ai soprammobili descritti da Honoré de Balzac, e tornare alla biancheria stesa fuori dalle finestre di Émile Zola. In uno dei suoi romanzi, Georges Perec – il quale avrebbe apprezzato tanto la valanga di brocche e orologi a muro di Periscope – pone all’inizio una citazione da Franz Kafka: “Non occorre che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta”. Oggi scriverebbe: resta al tuo tavolo e accendi Periscope.

Una vita fa esistevano le webcam fisse, si aspettavano i video su YouTube, si aspettavano le spunte blu di WhatsApp, adesso non resta che incantarsi davanti alle dirette infinite, ed essere dovunque, col dono dell’ubiquità di massa. Una ragazza riccia intona una canzone al pianoforte, qualcuno mostra una piazza di Milano. Non ci sono più spettatori, esistono solo testimoni.

Da Periscope usciranno delle star. Qualcuno riprenderà per caso un incidente d’auto o forse filmerà una rapina. Si discuterà a sfinimento di come censurare Periscope quando sarà invasa da sesso e violenza, e un’associazione di genitori raccoglierà allora firme per una petizione irrevocabile.

“This app is crazy”, dice una ragazza e scoppia in una risata, poi la diretta si interrompe. Qualcuno già odia Periscope. Una squadra di psichiatri sarà al lavoro per preparare una terapia per disintossicare i primi videodipendenti. Prima che arrivino tutti gli uffici marketing, la politica, e che tutto il resto diventi autopromozione, su Periscope si respira ancora un’aria divertita da pionieri. Il tumulto della vita è sotto agli occhi di tutti, tra noie, narcisismi, monologhi deliranti e paesaggi illimitati. Un bambino viene allattato, il vagone della metro di New York è arrivato al capolinea.

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