15 maggio 2015 13:15

“Si tratta di un ulteriore riconoscimento”, ma “non è una novità assoluta, non è una sorpresa, parliamo di stato palestinese dalla votazione dell’Onu del 2012. Adesso c’è anche un importante accordo internazionale, è vero. In ogni caso la commissione bilaterale durante i suoi lavori usava già il termine ‘stato’, nell’annuario vaticano è scomparso il riferimento all’Organizzazione per la liberazione della Palestina, si parla di un rappresentante dello stato palestinese”.

Il portavoce della Santa sede, padre Federico Lombardi, spiega in questi termini a Internazionale il senso del “riconoscimento” a cui hanno dato ampio risalto i mezzi d’informazione di tutto il mondo all’indomani dell’annuncio di un accordo tra Santa sede e stato palestinese sulla libertà religiosa e sui diritti della chiesa nei Territori.
“Continuità” è dunque la parola chiave usata in Vaticano, e il punto di partenza al quale ci si richiama è quello del voto nel 2012 da parte dell’assemblea delle Nazioni Unite che ammetteva lo stato palestinese con lo status di “osservatore”, per quanto non di paese membro (identica posizione per altro ricoperta dalla Santa sede). Da parte vaticana non si vuole alimentare nessuna polemica o dare eccessiva enfasi in queste ore a un dato politico-diplomatico che di certo non piace troppo a Israele; senza contare che i precedenti di cui parla Lombardi sono reali.

Così monsignor Antonio Camilleri, sottosegretario per gli affari esteri vaticano e capo delegazione nella trattativa con i palestinesi, in una lunga intervista rilasciata all’Osservatore Romano precisava che “il riferimento allo stato di Palestina e quanto affermato nell’accordo sono dunque in continuità con quella che è stata allora (nel 2012, ndr) la posizione della Santa sede”.

“Dobbiamo insistere: due popoli due stati”

Ma l’impatto politico di un accordo internazionale in cui uno stato senza confini precisi come quello palestinese sottoscrive un’intesa importante con la Santa sede, rappresenta qualcosa di più di una dichiarazione di principio. A chiarirlo è stato il segretario di stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, in un’intervista rilasciata a Tv2000, nella quale ha spiegato: “La prossima firma di un accordo con lo stato di Palestina si colloca esattamente nell’ottica di contribuire in maniera concreta alla realizzazione di un disegno che permetterebbe a due popoli di avere un proprio stato, di vivere all’interno di ciascuno con confini sicuri e internazionalmente garantiti. Non dobbiamo scoraggiarci per le difficoltà”.

E, del resto, delle possibili ricadute dell’accordo ha parlato lo stesso monsignor Camilleri: “Anche se in modo indiretto, sarebbe positivo”, spiegava il diplomatico “che l’accordo raggiunto potesse in qualche modo aiutare i palestinesi nel vedere stabilito e riconosciuto uno stato della Palestina indipendente, sovrano e democratico che viva in pace e sicurezza con Israele e i suoi vicini, nello stesso tempo incoraggiando in qualche modo la comunità internazionale, in particolare le parti più direttamente interessate, a intraprendere un’azione più incisiva per contribuire al raggiungimento di una pace duratura e all’auspicata soluzione dei due stati”.

E tuttavia è vero che il cuore dell’accordo riguarda un altro tema, ovvero le prerogative della chiesa nell’ambito dei Territori palestinesi: del riconoscimento dello stato palestinese si parla infatti nel preambolo nell’ambito della soluzione “due popoli, due stati”. Ma per il resto si tratta della conclusione – la firma verrà apposta in tempi che dovrebbero essere ormai brevi – di un lungo negoziato cominciato nel 2000 tra la Santa sede e l’Olp in merito alla libertà religiosa nei Territori palestinesi. Si affrontano i temi relativi alla libertà d’azione della chiesa, al suo personale e alla sua giurisdizione, quindi si toccano questioni, ha spiegato ancora monsignor Camilleri, come “lo statuto personale, i luoghi di culto, l’attività sociale e caritativa, i mezzi di comunicazione sociale”. Un capitolo è infine dedicato alle questioni fiscali e di proprietà.

Per la Santa sede, l’accordo raggiunto con la delegazione palestinese guidata da Rawan Sulaiman, viceministro per gli affari esteri e per gli affari multilaterali dello stato di Palestina mercoledì 13 maggio, ha poi un’importanza particolare. Esprime infatti la possibilità di porre su un piano politico e legislativo il tema della permanenza della chiesa in una società e in una realtà statuale in cui sono in netta prevalenza i musulmani. “È un accordo”, ci spiega in proposito padre Lombardi, “che parla della situazione della chiesa in uno stato a maggioranza musulmana, per quanto uno stato atipico, la terra di Gesù, con una forte tradizione cristiana”, un’intesa insomma che rientra negli sforzi compiuti “per tutelare i cristiani nella regione e permettergli di continuare a vivere”.

In merito al rischio che l’instabilità stessa all’interno della società e della politica palestinesi, a cominciare dalla divisione tra Hamas e Autorità Nazionale Palestinese, possa limitare l’attuazione dell’accordo, padre Lombardi rileva come l’intesa sia stata raggiunta con lo stato palestinese, altro problema è se poi questi sia in grado di esercitare “una sovranità effettiva”.

I cristiani stanno scomparendo dal Medio Oriente

Dopo molti anni si chiude dunque il lungo negoziato tra la Santa sede e i palestinesi con un occhio all’intero Medio Oriente devastato dai conflitti mentre intere nazioni vengono smembrate da fazioni armate.

Abu Mazen il 16 maggio sarà in Vaticano per essere ricevuto dal papa in qualità di presidente, per quanto il suo potere reale sia da tempo assai ridotto. Domenica assisterà alla canonizzazione di due suore palestinesi, e d’altro canto la diplomazia vaticana procede sempre su più livelli e il riconoscimento di santità che tocca il Medio Oriente ha insieme un significato religioso e politico.

L’ultima volta il leader palestinese era stato in Vaticano all’indomani della visita di papa Francesco in Terra santa insieme a uno Shimon Peres quasi dimissionario. Le fragili speranze di pace di quel vertice furono fatte a pezzi dal conflitto a Gaza dei mesi successivi mentre, al contempo, Iraq, Siria, Libia, Libano attraversavano una crisi senza precedenti. Ora, sotto la spinta del papa argentino, si riprende faticosamente a tessere la tela della diplomazia, ma certo pesa l’assenza di soggetti politici autorevoli e in grado di rimettere in moto un qualche tipo di negoziato di pace.

E d’altro canto la chiesa sconta un problema specifico, quello di una presenza cristiana ormai ridotta al lumicino in tutta la regione per cause diverse: le guerre, le violenze dei fondamentalisti, la crisi sociale ed economica conseguente ai conflitti che ha indotto alla migrazione cristiani e musulmani, le divisioni interne tra le tante piccole chiese spesso antichissime del Medio Oriente, l’amicizia troppo stretta con dittatori-protettori che possono rivelarsi col tempo dei falsi alleati.

Settori dell’opinione pubblica mediorientali più attenti hanno segnalato come la fine di una presenza cristiana in Medio Oriente dopo millenni costituirebbe un grave impoverimento sociale e culturale, una riduzione della complessità di quel mondo in nome di una semplificazione che piace al fondamentalismo.

In un quadro tanto critico spiccano alcune voci isolate ma coraggiose come quella del patriarca dei caldei iracheni, monsignor Louis Sako, promotore di una nuova idea di cittadinanza che superi confessionalismo e tribalismo etnico per dare a ogni abitante della regione uguali diritti e doveri. Un sogno, forse, che sembra oggi l’unica speranza possibile.

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