19 maggio 2016 12:36

L’ultimo aprile è stato il più caldo dal 1880. Non solo: è stato il settimo mese consecutivo sopra la media. Gli effetti catastrofici del cambiamento climatico cominciano a superare i limiti oltre i quali ogni intervento rischia di arrivare troppo tardi. Ma c’è una causa di questo cambiamento di cui si parla poco. Il documentario Cowspiracy, di Kip Andersen e Keegan Kuhn, prende spunto da un rapporto del 2006 della Fao in cui si spiega che i processi coinvolti nell’allevamento di animali generano il 18 per cento delle emissioni globali di gas serra legate alle attività umane, una quota superiore a quella dell’intero settore dei trasporti (stradali, aerei, navali e ferroviari), responsabile del 13,5 per cento di gas nocivi. L’allevamento è anche la causa principale del degrado ambientale e del consumo di risorse (per produrre un solo hamburger sono necessari 2.500 litri d’acqua, come rimanere sotto la doccia per quasi tre ore di fila).

La domanda di Kip Andersen è semplice: “Come mai non ne sapevo niente?”. Non dovrebbe essere in cima alla lista delle priorità di tutte le organizzazioni ambientaliste? Comincia a questo punto una parte surreale del documentario: Andersen cerca di intervistare i responsabili di Greenpeace, che però si rifiutano di incontrarlo. E con le altre organizzazioni non va meglio: riesce a parlare con qualcuno, ma le risposte sono evasive o tendono a minimizzare il problema. Eppure i numeri della Fao, che poi in uno studio più approfondito del 2013 sono stati rivisti leggermente al ribasso (14,5 per cento anziché 18), sono accusati di sottovalutare l’impatto dell’industria alimentare.

Un rapporto del 2009 del Worldwatch institute, condotto da due studiosi legati alla Banca mondiale, aggregando diversamente i dati disponibili sostiene che gli allevamenti sono responsabili del 51 per cento delle emissioni di gas serra. La reticenza delle organizzazioni ambientaliste è dovuta probabilmente a un insieme di fattori. Invitare a non mangiare carne, pesce, latte e uova è impopolare, e queste organizzazioni hanno bisogno del sostegno di tanti iscritti per sopravvivere, quindi privilegiano le battaglie in un certo senso più facili, che non richiedono scelte individuali drastiche. Poi certo l’industria alimentare è molto forte e ha una grande capacità di condizionare le scelte dei cittadini. Infine, in diverse parti del mondo chi contesta gli allevamenti rischia la vita: in vent’anni in Amazzonia sono stati uccisi 1.100 attivisti dei movimenti che si oppongono al disboscamento.

Cambiamento climatico, consumo e inquinamento delle risorse, deforestazione, perdita della biodiversità; e poi naturalmente le conseguenze sulla salute delle persone, i dubbi etici legati all’uccidere e al mangiare animali, le condizioni dei lavoratori di questo settore: il punto è che mentre intervenire sulle altre forme di inquinamento (trasporti, industria, produzione di energia, edilizia) richiede molto tempo ed enormi sforzi congiunti di governi e aziende, ridurre significativamente il consumo di carne, pesce, latte e uova non solo avrebbe un effetto rilevante e immediato sul cambiamento climatico ma soprattutto è una decisione che può prendere chiunque, in ogni momento. È una scelta che pensavamo di poter rimandare ai nostri figli. Forse non è più così.

Greenpeace Italia ha scritto una lettera di risposta all’editoriale.

Questo articolo è stato pubblicato il 20 maggio 2016 a pagina 7 di Internazionale, con il titolo “Immediato”. Compra questo numero| Abbonati

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