12 giugno 2015 12:46

Il mondo dei maya del Guatemala è stato narrato da due premi Nobel, uno per la letteratura, Miguel Ángel Asturias, e uno per la pace, Rigoberta Menchú. Due persone attente alla loro cultura come alla loro realtà sociale, e la seconda per esperienza diretta perché, appunto, maya (per inciso, ho avuto la fortuna di conoscerli entrambi).

Più in generale il mondo indio è stato narrato da grandi scrittori peruviani (il sociologo José Carlos Mariátegui, il poeta César Vallejo e il narratore ed etnologo José María Arguedas, autore di I fiumi profondi, che chi non conosce farebbe bene a leggere perché è uno dei capolavori del novecento) e messicani (Juan Rulfo in testa a tutti). Ma il cinema? Ricordo un bel film del boliviano Jorge Sanjinés, Yawar mallku, e molti documentari.

Oggi torna ai maya Jayro Bustamante con questo Vulcano, che sa unire il calore del racconto e la durezza del documento.

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Un film austero, che non si perde in dettagli didattici superflui: costruisce una storia a partire dalla conoscenza diretta del mondo che racconta e, con la partecipazione diretta dei suoi protagonisti, all’elaborazione del racconto. Non predica, non lancia messaggi: ha le idee chiare su quanto vuol dire, e ha un linguaggio e uno stile.

Siamo su un vulcano, uno dei tanti della parte alta del paese, e si parte dalla vita quotidiana di un piccolo nucleo familiare di contadini, di raccoglitori di caffè: padre, madre e figlia adolescente che sono nullatenenti e dunque sottoposti allo sfruttamento e alle angherie dei coltivatori e dei grossisti (per conto, si lascia intendere, degli americani) che sono anche gli unici commercianti della zona.

Unici svaghi le rare feste e un’osteria dove gli uomini possono ubriacarsi. Quando qualcosa precipita ci si rivolge a un santone, ma nei più giovani cresce l’idea della fuga in un mondo migliore: oltre il vulcano c’e la strada per gli Stati Uniti, il paese delle possibilità.

Questa fuga verso una terra promessa sommamente ingannevole l’ha raccontata benissimo un film messicano recente, La gabbia dorata di Diego Quemada-Díez, che partiva appunto dai confini con il Guatemala e affrontava la traversata del Messico di alcuni giovani sognatori. È inutile che la madre dica alla figlia che dietro il vulcano c’è solo “acqua fredda”, questa figlia si lascia possedere da un giovane deciso a partire sperando la prenda con sé, e tradisce l’impegno familiare delle sue nozze con un piccolo proprietario. Con la madre tenta di abortire e segue i consigli di un santone, ma tutto è inutile. Morsa da uno dei tanti serpenti che infestano la piantagione, partorisce una bambina nell’ospedale della grande città dove la portano per salvarla. Le dicono che la figlia è morta, ma poi si scopre che è stata rubata dai trafficanti di bambini, una delle realtà più amare del sottosviluppo, un dono del mondo dello sviluppo.

La natura, l’economia, la società, la religione: è un mondo crudele quello in cui i maya (molti dei quali non sanno lo spagnolo) devono vivere, e crudele è il loro destino, fatto storicamente di lotte e di rinunce, di lotte e di stragi. Bustamante ce lo accosta senza invettive e senza demagogia, e narra per aggiunte spesso silenziose, notturne.

Porta un grande rispetto a una condizione e una cultura che conosce bene ma che non sono le sue (“Yo soy maya, yo no soy latina” gridava Rigoberta Menchú rivendicando una differenza culturale e sottolineando una soggezione economica). E ci offre un film convincente, rigoroso e onesto, privo di speranza.

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