01 agosto 2016 19:00

Szilárd Borbély, I senza terra
Marsilio, 264 pagine, 18,50 euro

È un grande romanzo, per il quale non si esita a usare la rara parola di capolavoro, di uno scrittore ungherese morto suicida a 51 anni. Narra con gli occhi di un bambino che cresce e che ha l’ossessione rituale dei numeri indivisibili gli anni sessanta di una famiglia miserabile in un villaggio di confine dove confliggono o convivono ungheresi, romeni, zingari, ebrei, ruteni, più religioni e tradizioni sotto il giogo di un regime che si diceva comunista.

“Perché noi siamo diversi? Chiedo. Perché non siamo di qui, dice mia madre. Allora anche noi siamo ebrei? Chiede mia sorella. Lo diventeremo, risponde mia madre”. È uno sguardo infantile a scoprire l’asprezza dell’esistenza, la scarsità e l’ingiustizia e la violenza che accomunano uomini e animali, senza nessun messia nei dintorni. Non tanto di contadini si tratta (il titolo originale, secondo Pressuburger che firma la quarta di copertina dell’edizione italiana, dice piuttosto “i derelitti”, ma è più chiaro quello scelto da una grande traduttrice, Mariarosa Sciglitano) ma di braccianti, operai. Una famiglia, padre e madre e tre figli piccoli, e i parenti, il villaggio, l’osteria, più tardi la scuola (e che scuola!).

Un’identità comune divisa dal pregiudizio, un ordine sociale oppressivo, un apprendistato alla vita fatto di normali crudeltà e fissazioni. Frasi brevi e secche si alternano a digressioni mai superflue, pane al pane e merda alla merda.

Questa rubrica è stata pubblicata il 22 luglio 2016 a pagina 79 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it