26 agosto 2016 14:48

Ecco un dvd da non perdere, per chi ama la potenzialità intellettuale e morale e non solo artistica del cinema: Ordet di Carl Theodor Dreyer, Leone d’oro al festival di Venezia del 1955 e certamente uno dei film più intensamente religiosi nella storia del cinema.

Dreyer, nato nel 1889 a Copenaghen, in Danimarca, ha diretto solo pochi film, quasi sempre dei capolavori: Michael, La passione di Giovanna d’Arco (uno dei titoli fondamentali del cinema muto), Vampyr, Dies irae, Ordet, Gertrud. Quello a cui teneva di più, una vita di Gesù, la cui sceneggiatura, pubblicata a suo tempo da Einaudi fu la molla che spinse Pasolini al suo Vangelo secondo Matteo, egli non riuscì purtroppo a realizzarlo. Dei suoi film tutti hanno ammirato nel tempo il rigore e la bellezza, ma non è stato facile “leggerli” in un’ottica che non fosse anche religiosa, e decisamente religiosa. Diciamo che i laici integrali, per esempio i meno ottusi dei marxisti, hanno visto Dreyer come qualcosa da ammirare da lontano, per lo splendore e l’altezza dei risultati estetici, cercando semmai di recuperarne nel caso di Dies irae la soggiacente tensione anche politica, la critica dell’intolleranza religiosa.

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Ambientato nel seicento e storia di un processo per stregoneria, quel film venne girato nel 1943, ed è stato letto anche, giustamente, come critica dell’intolleranza, nel pieno del trionfo nazista. Peraltro Dreyer, sempre più appartato e schivo (bellissimo il suo volto di vecchio ragionante nell’intervista che si trova nei contenuti speciali del dvd, nonostante la superficialità dell’intervistatore e gli odiosi svarioni dei sottotitoli) non si è mai posto come rivale di nessuno, e si è tenuto distante dalle correnti dominanti nel suo tempo, fedele al suo Kierkegaard e alla sua ricerca di un linguaggio che potesse unire cinema (racconto immagine movimento) e spirito (fino all’inesprimibile) nel modo più evidente e più immediato.

Ordet è la Parola con la maiuscola, la parola divina, quella che può dare la vita e far risuscitare i morti. Portando sullo schermo un dramma di Kaj Munk del 1942, Dreyer lo muove in pochi ambienti, limpidi interni e pochi esterni essenziali, con parchi e meditati movimenti di macchina. La luce è quella della grande pittura, quella di Vermeer, solo più netta e come più vasta, più dichiarante: una luce di per sé spirituale e in cui persone e cose trovino la giusta collocazione, un ordine rotto soltanto dal girovagare lento e inquieto del personaggio-chiave del film, un pazzo. Ma andiamo con ordine: una fattoria ricca, con un patriarca e tre figli di cui uno, mandato a studiare filosofia o teologia, è impazzito e ha finito per viversi come un posseduto dal Cristo, un nuovo Messia; il più giovane vorrebbe sposare la figlia di un sarto seguace di una corrente più cupa del cristianesimo, secondo una divisione antica e ricorrente tra i più pessimisti e i meno pessimisti sul genere umano e sui modi del suo riscatto, ma il sarto dice no e di qui il conflitto tra due patriarchi, tra due visioni.

Nella fattoria la figura più luminosa è Inger, moglie del primogenito, un uomo che figura come il più laico (e scettico) dei personaggi. Ai margini, un pastore che fa il pastore, un medico che fa il medico. A precipitare i confronti è la morte per parto di Inger, il cui lutto spinge i due patriarchi alla riconciliazione. L’ultimo atto è attorno al letto di morte della donna, ed è dominato dalla ricomparsa di Johannes, il pazzo, di cui si erano perse le tracce, che torna rinsavito e accompagnato dalla figlia di Ingrid, la bambina semplice e pura la cui fede accompagna la sua. Egli dice alla morta di destarsi, di tornare alla vita. E Inger risuscita, può tornare all’amore dei suoi e del mondo. I miracoli sono ancora possibili. Dio, dicono i due patriarchi, è ancora lo stesso Dio onnipotente del profeta Elia…

Una tensione verso l’alto

Si può, come hanno fatto tanti critici a suo tempo e dopo, vedere “dall’esterno” il film, ammirandone la resa estetica, il rigore formale, l’altezza spirituale che pervade ogni immagine e ogni movimento. Si può, come hanno fatto i credenti, restarne coinvolti emotivamente e spiritualmente. Si può, come certi laici, discutere in termini razionali e teorici i presupposti del miracolo, le sue possibilità o impossibilità. Si può infine, come altri ancora, ed è forse questa la lettura che più mi convince, esserne conquistati spiritualmente pur nello scetticismo dei non credenti, quasi con invidia nei confronti dei credenti, e, da critici che credono nell’importanza del cinema, esaltarsi per le sue possibilità di essere, nelle mani giuste, strumento di arte e di pensiero, arte e filosofia, e perfino arte e teologia.

Ma è oggi di registi come Dreyer, o come dello scettico Buñuel (“sempre ateo grazie a Dio”), o come di certo nostro Rossellini (appunto quello del Miracolo, e quello di Europa ’51) che si riesce ad avvertire pienamente la modernità, per la necessità di un cinema che miri alla verticalità e non si limiti alla orizzontalità del racconto e della tensione.

In un’epoca che può prevedere assai più che in passato l’ipotesi concreta della fine del mondo, le inquietudini che l’umanità sta vivendo tra poche ragioni di speranza e molte di disperazione sono obbligatoriamente quelle di ogni persona intelligente. Esse producono apprensioni e turbamenti che non sono sempre razionalizzabili. Confrontarsi con le opere più alte dell’arte e del pensiero, anche a partire dalle nostre convinzioni e, a volte, dai nostri pregiudizi, o provocati dalle convinzioni degli altri, può aiutare ad accostarsi ai problemi centrali, spingere a cercar risposta alle domande più gravi, a non perdersi del tutto nelle distrazioni del quotidiano.

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