28 settembre 2016 15:38

Caro Dottore,
mi rivolgo a lei nella speranza di fare luce su una biblionevrosi che mi affligge da anni e che si manifesta con sintomi penosi per me e per chi mi sta intorno: lanci di libri ad altezza torso, sopracciglio alzato fino al crampo del muscolo corrugatore, insulti in absentia agli autori, alternati a scoppi di risa e ad altri disturbi dell’umore. Spero che possa perdonare la presunzione con cui le sottopongo così a bruciapelo un’autodiagnosi, ma credo di essere affetto da “asimmetria percettiva da paratesto”. In altre parole, sono del tutto insofferente a quegli elementi paratestuali (dediche, ringraziamenti, epigrafi) che non si allineano con l’immagine che l’autore dà o dovrebbe dare di sé attraverso la sua opera. Come accettare il tòpos nauseante del ringraziamento alla moglie/marito, “che ha sopportato con pazienza le lunghe assenze di questi anni, e senza il cui silenzioso sostegno questo libro non avrebbe mai visto la luce”? E come non provare imbarazzo per gli ammiccamenti finto-riservati “a M. e G., loro sanno perché”? Mi aiuti, Dottore, la scongiuro. Ultimamente sono arrivato a selezionare i libri leggibili sulla scorta di un ringraziamento alla moglie o al marito.

—Claudio Lagomarsini

Caro Claudio,
la tua lunga lettera (ho dovuto dimezzarla: spero che questo non scateni altri sintomi violenti o lanci di computer ad altezza d’uomo) mi ha ricordato una profezia di Umberto Eco che disgraziatamente non accenna ad avverarsi. L’occasione era una conferenza del 1994 sul futuro del libro: “Sono un collezionista di libri rari e mi deliziano quei titoli del Seicento che occupavano un’intera pagina o anche più. Sembravano titoli di film di Lina Wertmüller”.

Le introduzioni, poi, “si aprivano con elaborate formule di cortesia per encomiare il destinatario ideale, di solito un imperatore o un papa, e procedevano per pagine spiegando in uno stile molto barocco gli intenti e i pregi del testo che seguiva”. Che pena, a confronto, le introduzioni dei nostri libri accademici, che in una paginetta scarsa “ringraziano qualche fondazione nazionale o internazionale per una generosa borsa di studio, spiegano brevemente che ‘il libro è stato reso possibile dall’amore e dalla comprensione di una moglie o di un marito e di alcuni bambini’, rendono merito alla segretaria che ha pazientemente battuto a macchina il manoscritto”.

Ed ecco la profezia: “Immagino che nel futuro prossimo troveremo tre righe con scritto ‘M/f, Smith, Rockefeller’, che decodificheremo come: ‘Ringrazio mia moglie e i miei figli; questo libro è stato pazientemente rivisto dal professor Smith, ed è stato reso possibile dalla Rockefeller Foundation’”.

Le cose sono andate diversamente, molto diversamente – e tu te ne sei ammalato. Il reparto dediche e ringraziamenti si espande come un fluido mortale, e non perché stia tornando l’antico uso dell’encomio al sovrano: il modello è piuttosto quello egolatrico del “quarto d’ora di celebrità”, nella sinistra variante del “volevo salutare…”, tipica dell’ospite occasionale di una trasmissione televisiva. Come a dire: già che sono in diretta, colgo l’occasione per mandare un saluto alla mamma, un augurio di pronta guarigione a zia Fernanda, un bacetto al piccolo Luigino, un saluto agli amici della Corale madrigalisti di Strangolagalli (siamo i più forti, ragazzi!), una testa di cavallo mozzata a Ciccio (lui sa perché) e soprattutto ti amo Luana grazie di esistere. Con la non trascurabile differenza che, in un libro, non c’è un conduttore spazientito che cerca di strapparti il microfono come se fossi un cane aggrappato all’osso. Il contagio si può vedere all’opera fin dalle tesi di laurea, dove ormai la sezione dei ringraziamenti occupa il doppio della bibliografia, e dove – al centro di un pantheon bizzarramente assortito di dedicatari pubblici e privati, dal mahatma Gandhi al correlatore – figura sempre più spesso la grottesca dedica “A me stesso”.

“Noi ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi piedi, senza chiederti nemmeno di stare fermo”. Dal film Non ci resta che piangere.

Che fare? Ti consiglio un rimedio omeopatico, basato sul principio che il simile cura il simile. Leggi tutte le dediche che puoi, senza per forza leggere il libro, così da soffrire meno per l’asimmetria. Dopo un primo inasprirsi dei sintomi – il famoso aggravamento omeopatico – vedrai che si scioglierà il crampo del muscolo corrugatore, e presto capirai che le dediche sono una benedizione, una fortuna di cui esser grati, una specola incomparabile da cui si può cogliere la natura di un autore in un colpo d’occhio; e ne concluderai che si può comporre un trattato sull’animo umano, sulle sue grandezze e le sue miserie, solo scrutando quelle poche righe. Male che vada, ti sarai mitridatizzato. Se avrai fortuna, ti imbatterai in vertici di sprezzatura come la “dedica vergine” di cui parla Laurence Sterne in un capitolo del Tristram Shandy, deposta genericamente “ai piedi di Vossignoria Illustrissima – posto che vi troviate in piedi (ma state pure come vi piace)”:

Se perciò vi è qualche duca, marchese, conte, visconte o barone, nei domini di Sua Maestà, che è in cerca di una dedica breve, aggraziata, fatta su misura (è logico che, se non è adatta, non la cedo), ebbene gliela do per cinquanta ghinee, prezzo che, sono sicuro, è inferiore di venti ghinee a quello che si dovrebbe pagare a un qualsiasi uomo di genio. Caro signore, riguardatela bene! Vedrete che la mia dedica non è uno di quei pezzi grossolani e adulatori, che si trovano sovente sul mercato.

Esempio di come si possa essere cerimoniosi e, insieme, deliziosamente strafottenti. Ma potrai anche imbatterti in esempi complementari, dove si vede che non è necessario comporre una lunga epistola dedicatoria al Principe per restaurare i fasti dello scrittore di corte. Sai qual è la dedica del saggio introduttivo di Alberto Asor Rosa al Meridiano di Eugenio Scalfari? “A Eugenio Scalfari”.

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