15 marzo 2017 15:40

Gentile bibliopatologo,
amando smodatamente i classici, leggendo – e rileggendo – moltissimo, mi ritrovo un po’ allarmata a pormi la fatale domanda: ma i classici finiscono? E se sì, cosa ne sarà di me? Leggere meno, accontentarmi dei contemporanei, scivolare drasticamente nelle letture di genere, darmi alla filosofia? Quasi piango…

– Manolita in ansia

Cara Manolita,
pur con tutta la delicatezza che si richiede nella comunicazione medico-paziente, devo darti una brutta notizia: ebbene sì, i classici finiscono. Ma temo ci sia una notizia ancora peggiore: tu e io finiremo molto prima di loro. Non arriveremo mai a leggere l’ultimo classico, proprio come non potremo assistere con i nostri occhi allo spegnimento del Sole, non ci sarà concesso testimoniare l’estinzione della vita sulla Terra, non saremo lì a piangere la morte termica dell’universo.

Basta arrendersi all’evidenza di un calcolo semplice e incontrovertibile, che Umberto Eco ha fatto in una Bustina di Minerva del 1997 intitolata Quanti libri non abbiamo letto?

Eco prendeva come riferimento il Dizionario Bompiani delle Opere: “Nell’edizione attualmente in commercio, le Opere contano 5.450 pagine. Calcolando a occhio che vi siano in media tre opere per pagina, abbiamo 16.350 opere”. Sedicimila classici!

Proponeva poi di stimare in quattro giorni il tempo che un lettore medio (uno che ha anche altre cose da fare nella vita) impiega a leggere un libro. “Ora quattro giorni per ogni opera registrata dal Dizionario Bompiani farebbe 65.400 giorni: dividete per 365 e avete quasi 180 anni. Il ragionamento non fa una grinza. Nessuno può aver letto o leggere tutte le opere che contano”.

Accordarsi su cosa sia un classico
Certo, si può avanzare qualche obiezione al calcolo di Eco. Sospetto che quattro giorni siano pochi, anche a voler fare una media tra il tempo di lettura richiesto dalle cinquanta pagine della Metamorfosi di Kafka e quello richiesto dalla Recherche di Proust, che da sola è più lunga di tutto il Dizionario Bompiani. E poi non c’è nulla di più difficile che accordarsi su cosa sia un classico. Di canoni ce ne sono molti, tutti più o meno idiosincratici, sempre più capricciosi via via che ci si avvicina ai nostri giorni. Restando a Eco, per esempio, la tua definizione di classico è abbastanza larga da includere Il nome della rosa? Philip Roth è un classico? Mario Vargas Llosa è un classico? E i Grandi Classici Disney ce li mettiamo?

Possiamo fare tutta la contabilità creativa che ci pare, truccare i bilanci, aggiungere o togliere voci, cercare di accomodare le cifre al nostro pio desiderio. Il risultato sarà sempre lo stesso: le nostre vite sono troppo brevi per sperare di leggere tutti i libri che meriterebbero di esser letti. “Io sono uno a leggere, loro sono milioni a scrivere”, diceva Massimo Troisi in Le vie del Signore sono finite. “La vita è breve, l’arte lunga”, aveva detto qualcuno in un’epoca lontana in cui era ancora possibile, per un dotto, leggere non dico tutti i classici, ma tutti i libri scritti dall’umanità fino a quel momento. Quel qualcuno era Ippocrate, al cui giuramento anche noi bibliopatologi dobbiamo attenerci.

Le due brutte notizie, però, si possono combinare per crearne una più consolante, forse perfino ansiolitica. La fortuna è che possiamo permetterci quello che Diderot, nel Sogno di D’Alembert, chiamava il “sofisma dell’effimero”, ossia il sofisma dell’essere transitorio che crede nell’eternità del mondo – “come la rosa di Fontenelle, il quale diceva che, a memoria di rosa, non s’è mai visto morire un giardiniere”. I classici finiranno, ma nessuno di noi vivrà abbastanza per vedere la loro fine.

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