28 dicembre 2014 17:39

Lo scopo principale degli articoli di fine anno è, naturalmente, quello di fare il punto. Ma possono anche servire da check-up annuale delle condizioni di salute politica – ed economica, demografica e perfino fisica – del pianeta e della sua brulicante popolazione di essere umani. Perciò immaginateci come un team di medici di alto livello che controllano le condizioni di salute del nostro paziente principale, la specie umana.

La prima cosa da notare è che il paziente continua a prendere peso a un ritmo allarmante – passando da due miliardi di unità a sette miliardi negli ultimi 75 anni – ma continua per lo più a crescere bene. E la maggior parte delle malattie che lo preoccupano sono solo frutto dell’ipocondria.

Considerate per esempio la preoccupazione diffusa (almeno sui media e tra coloro che Bob Fisk definisce i “ciarlatani del think tank”) sulla possibilità che l’emergere del gruppo Stato islamico nella terra di nessuno tra Iraq e Siria porti alla catastrofe. A quanto si dice ci sarà un aumento degli attacchi terroristici in tutto il mondo, la guerra di religione tra sunniti e sciiti si diffonderà in tutto il Medio Oriente o si arriverà addirittura a una guerra religiosa globale tra i musulmani e tutti gli altri.

I fanatici sunniti e i fanatici sciiti sono fin troppo occupati a uccidersi tra loro per trovare il tempo di attaccare i non musulmani (tra l’altro, la maggior parte dei musulmani non vuole attaccare nessuno, vuole semplicemente essere lasciata in pace). Buona parte dei massacri in Iraq e Siria sono provocati dalla religione, ma siamo ancora ben lontani da un conflitto religioso che coinvolga gli stati davvero importanti del Medio Oriente: Egitto, Arabia Saudita, Turchia e Iran.

Anche il previsto aumento di attacchi terroristici al di fuori della regione è piuttosto improbabile. L’unico obiettivo strategico di simili attacchi da parte di uno qualsiasi dei gruppi organizzati di estremisti islamici è quello di conquistare consenso e nuove reclute nelle regioni in cui operano. Se riescono a convincere le potenze occidentali a uccidere tanti musulmani nelle loro regioni, allora la loro causa si rafforzerà a livello locale.

A quanto si è visto, lo Stato islamico non ha avuto bisogno di compiere attacchi terroristici in occidente per raggiungere questo obiettivo. I video della decapitazione di ostaggi occidentali sono bastati a far ricominciare i bombardamenti, e i governi occidentali non si preoccupano della assoluta inutilità dei bombardamenti più di quanto non lo abbiano fatto in passato. Entrambe le parti agiscono a beneficio delle rispettive opinioni pubbliche, e non si preoccupano un gran che dell’impatto delle loro azioni sul presunto nemico.

Tutto il panico generato dallo Stato islamico non è altro che una tempesta in un bicchiere d’acqua relativamente piccolo. I morti sono pochi, e la regione nel suo complesso è poco importante dal punto di vista economico o strategico, se non per chi ci abita. Persino nel caso remoto in cui una guerra tra sunniti e sciiti dovesse travolgere tutto il Medio Oriente, gli effetti sul resto del pianeta non sarebbero maggiori rispetto a quelli causati in Medio Oriente dalle guerre di religione europee di quattro secoli fa. Vale a dire, praticamente nulli.

Perciò dal punto di vista della salute del sistema, l’aumento dell’islamismo radicale non è una malattia mortale. È un’infezione locale che probabilmente dovrà fare il suo corso. Se dovesse peggiorare sul serio potrebbero rendersi necessarie delle misure di quarantena, ma questo non è il virus ebola.

A proposito dell’ebola, a quanto pare siamo sulla buona strada per contenere l’epidemia esplosa in Africa, anche se probabilmente rimarrà un problema cronico a bassa intensità nei tre stati dell’Africa occidentale in cui ha raggiunto un livello epidemico: Sierra Leone, Liberia e Guinea. C’è qualche rischio che l’ebola possa radicarsi in un paese densamente popolato la cui popolazione viaggia in tutto il mondo, come la Nigeria o peggio ancora l’India, ma fin qui va tutto bene.

L’altro grande spavento del 2014 è stato quello di una guerra in Europa. La rivoluzione ucraina dello scorso febbraio è stata una cosa piuttosto disordinata e complicata, ma non era necessario che finisse con l’annessione illegale della Crimea da parte della Russia e con una guerra separatista appoggiata dalla Russia nelle due provincie più orientali dell’Ucraina.

Se le cose sono andate così, lo dobbiamo principalmente alla visione del mondo del presidente russo Vladimir Putin, ex agente del Kgb, la polizia segreta sovietica che (come dice un vecchio proverbio) per ogni complotto antisovietico reale ne sventava dieci inesistenti.

Il Kgb era pieno di gente sveglia – anzi, a dire il vero era la parte più intelligente e meglio informata del vecchio regime sovietico – ma era anche rifugio di paranoici. Potete discutere quanto volete sul fatto che questo fosse un fenomeno culturale russo o una manifestazione estrema della malattia che colpisce qualsiasi agenzia di spionaggio di una grande potenza, ma è per questo che Putin ha reagito in quel modo.

I governi dell’Europa occidentali sono talmente divisi e chiusi in se stessi che non riuscirebbero a partorire un piano credibile nemmeno per bollire un uovo, e si preoccupano pochissimo delle regioni dell’Europa orientale non comprese entro i confini dell’Unione europea. L’unica parte di popolazione americana che ritiene l’amministrazione Obama capace di ordire un complotto è l’estrema destra, convinta che il presidente degli Stati Uniti sia un comunista nato all’estero che vuole rovesciare gli Stati Uniti.

Molti politici occidentali si sono fatti vedere a Kiev per esprimere il sostegno ai manifestanti, ma non erano altro che i soliti noti desiderosi di approfittare di un’ottima occasione per farsi ritrarre in qualche foto. Il loro pubblico vero, come sempre, era quello a casa. Per quanto riguarda la Nato, quest’istituzione della guerra fredda sopravvissuta al suo scopo non vuole portare l’Ucraina nella sua sfera più di quanto non voglia far aderire la Mongolia. Troppi problemi e nessun vantaggio.

Non c’era alcun complotto occidentale, ma Putin è spinto dalla convinzione che ce ne fosse uno. Ha trascinato la Russia in uno scontro con l’occidente che non può vincere, e l’economia del paese si sta già sgretolando sotto i colpi concomitanti delle sanzioni occidentali e del crollo del prezzo del petrolio. È ormai impossibile per lui ritirarsi senza perderci la faccia, ma non ha niente da guadagnare nel proseguire sulla strada del conflitto. Il rischio di una nuova guerra fredda è minimo.

Fin qui la salute del paziente appare piuttosto buona. C’è il solito groviglio di malanni di minore entità – una piccola guerra civile qui (Libia, Sud Sudan), manifestanti per i diritti civili sotto attacco là (Hong Kong, Missouri) – e c’è la concreta possibilità che il prossimo anno si verifichi una nuova recessione. È una cosa inevitabile, come prendersi un raffreddore ogni tanto. Ma quest’anno non c’è stato proprio nulla di straordinario, nulla che abbia fatto suonare l’allarme.

L’unica grande preoccupazione che affligge i medici è la stessa degli ultimi venticinque anni: il paziente non ha alcuna intenzione di smettere di fumare. Ai loro avvertimenti sempre più seri risponde con vaghe promesse di ridurre o smettere del tutto, ma non subito, in un non meglio precisato futuro. Forse.

Siamo inondati senza tregua da nuove notizie, e alcune hanno un impatto significativo sulle vite di molte persone – le vite di un miliardo di persone, quando l’India elegge un nuovo primo ministro o la Cina sceglie un presidente (non eletto), come è accaduto quest’anno. Ma il cambiamento davvero radicale è molto più raro di quanto la gente sia portata a credere (e di quanto i mezzi d’informazione incoraggino a pensare). Adesso che la minaccia di una guerra nucleare su ampia scala si è attenuata, resta solo una cosa.

Il cambiamento climatico è lo spettro di qualsiasi festeggiamento, l’ombra che minaccia qualsiasi sviluppo positivo. Il fallimento di Copenaghen nel 2009 contagia impercettibilmente le sciocchezze di Durban nel 2001 e il debole compromesso di Lima nel 2014, che ci proietta verso la delusione ancora maggiore di Parigi nel 2015. E anche se grazie a un miracolo riuscissimo a ottenere un accordo utile a Parigi l’anno prossimo, non si farà niente prima del 2020.

Il paziente è convinto che ci sia ancora molto tempo per smettere. Ma non è così.

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