23 giugno 2015 15:12

“In tutto il mondo ci sono esempi di specie che sono praticamente estinte”, ha dichiarato Paul Ehrilch, professore dell’università di Stanford. “E anche noi esseri umani stiamo preparando le condizioni per la nostra estinzione”.

Ehrilch si riferiva alla sesta estinzione, l’imponente scomparsa delle specie che sarebbe in corso proprio adesso. Naturalmente la questione è già stata affrontata in passato, ma Ehrlich e altri scienziati delle università di Stanford, Princeton e Berkeley si sono impegnati a documentarla statisticamente.

È sempre successo che animali e piante si estinguessero, spesso sostituite da specie rivali che sfruttano la stessa nicchia ecologica in maniera più efficiente. Ma il normale tasso di ricambio è piuttosto lento. A giudicare dai reperti fossili ogni secolo si estingue all’incirca una specie di vertebrati ogni diecimila. Ehrlich e i suoi colleghi si sono comunque mossi con prudenza, ammettendo per ipotesi che il normale tasso di estinzione fosse due volte più alto di così, ma il risultato a cui sono giunti è comunque allarmante.

In uno studio pubblicato questo mese su Science Advances, affermano che i vertebrati (gli animali dotati di uno scheletro interno fatto di ossa o cartilagine, ovvero mammiferi, uccelli, rettili e pesci) si stanno estinguendo a un ritmo 114 volte più rapido del normale. Lo scorso anno, in un altro studio, il professor Stuart Pimm della Duke university ha calcolato che il tasso di perdita, che include sia le piante sia gli animali, potrebbe essere addirittura mille volte più alto del normale.

“Stiamo entrando nella sesta grande estinzione di massa”, ha detto Gerardo Ceballos della Universidad autonoma del Messico, principale autore dello studio di Sciences Advances. “Se continuerà, la vita potrebbe avere bisogno di molti milioni di anni per recuperare le perdite ed è probabile che la nostra stessa specie scompaia abbastanza presto”. Effettivamente, il biologo di Harvard Edward O.Wilson ha calcolato che, all’attuale tasso di perdita, la metà delle forme di vita più evolute sulla Terra saranno estinte entro il 2100.

È corretto dire che siamo le vittime del nostro stesso successo, ma questo vale per tutta la biosfera

Ciascuna delle cinque precedenti estinzioni di massa, tutte avvenute nell’ultimo mezzo miliardo di anni, ha spazzato via almeno la metà delle specie viventi. Quattro di esse furono probabilmente causate dall’improvviso surriscaldamento del pianeta in seguito a imponenti eruzioni vulcaniche durate vari millenni.

L’aumento della tempeatura ha progressivamente privato di ossigeno le profondità oceaniche, permettendo ai solfobatteri di emergere dai fanghi dei fondali. Impossessandosi dell’oceano, questi hanno ucciso tutte le forme di vita aerobiche e quando alla fine hanno raggiunto la superficie, hanno emesso vaste quantità di solfuro di idrogeno che hanno distrutto lo strato di ozono e hanno direttamente avvelenato anche la maggioranza delle forme di vita terrestri.

La quinta e più recente estinzione di massa, avvenuta alla fine del cretaceo, 65 milioni di anni fa, sarebbe stata causata da un gigantesco asteroide che, scontrandosi con la Terra, generò così tanta polvere da nascondere di fatto il Sole per molti anni. Prima sono morte le piante e poi gli animali. La sesta estinzione invece è causata da una singola specie: noi.

È corretto dire che siamo le vittime del nostro stesso successo, ma questo vale per tutta la biosfera. Eravamo un miliardo nell’ottocento. Oggi siamo sette miliardi e mezzo e presto diventeremo dieci o undici miliardi. Ci siamo appropriati del 40 per cento del terreno biologicamente più produttivo del pianeta per le nostre città, coltivazioni e pascoli, lasciando poco spazio libero per le altre specie.

Queste sono state private del loro habitat, cacciate oppure avvelenate dai nostri rifiuti chimici. Anche gli oceani subiscono devastazioni, con le specie ittiche d’interesse commerciale pescate una dopo l’altra a un ritmo insostenibile. Eppure la nostra popolazione continua a crescere e il nostro appetito di carne fa sì che sempre più terra sia sgomberata per coltivare del frumento che non è destinato agli esseri umani bensì al bestiame.

E tutto questo avviene prima che il riscaldamento globale cominci davvero e si prenda ampie porzioni dell’ecosfera. Siamo “sull’autostrada per l’inferno” ed è difficile capire come riusciremo a uscirne.

Non è chiaro se potremo continuare a nutrire tutta la popolazione umana, ma l’alternativa è anche peggiore

In un certo senso, i cambiamenti climatici sono la parte del problema più facile da risolvere: l’unica cosa da fare è smettere di bruciare combustibili fossili e cambiare il modo in cui alleviamo e coltiviamo per ridurre le emissioni di anidride carbonica. Più facile a dirsi che a farsi, come dimostra ampiamente la storia degli ultimi trent’anni, ma di sicuro non impossibile se prendiamo il compito sul serio.

Preservare la diversità delle specie (alcune delle quali non sono ancora neppure state identificate) che forniscono essenziali “servizi all’ecosistema” sarà molto più difficile poiché la rete d’interdipendenza tra specie apparentemente estranee è molto complessa. Tuttavia, è chiaro che dobbiamo riportare circa un quarto dei terreni agricoli al loro stato “selvatico” originario e dobbiamo ridurre in maniera drastica la pesca.

Non è chiaro se potremo riuscirci in tempo e se potremo continuare a nutrire tutta la popolazione umana, ma l’alternativa è anche peggiore. James Lovelock lo spiega senza tanti giri di parole nel suo libro La rivolta di Gaia.

“Se continuiamo a far finta di nulla, le nostre specie potrebbero non godere mai più del rigoglioso e verdeggiante mondo che esisteva appena cento anni fa”, ha scritto Lovelock. “A essere maggiormente in pericolo è la civiltà; gli esseri umani sono abbastanza forti da far sopravvivere delle coppie in grado di riprodursi. Ma se questi grandi cambiamenti avranno davvero luogo è probabile che, dei miliardi di persone che oggi si accalcano sulla Terra, saranno in pochi a sopravvivere”.

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