20 febbraio 2015 10:02
Una classe dell’Istituto tecnico industriale James Clerk Maxwell a Milano, nel 2008. (Alessandro Imbriaco, Contrasto)

Uno studente italiano su tre abbandona la scuola statale superiore senza aver completato i cinque anni. È quanto emerge dai dati del ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca elaborati nel dossier Dispersione di Tuttoscuola. Un dato che in alcune regioni, come le isole, arriva a quota 35–36 per cento.

Una vera e propria emorragia tra le mura e i banchi delle scuole italiane, che prosegue silenziosa e inosservata. “Negli ultimi 15 anni quasi 3 milioni di ragazzi italiani iscritti alle scuole superiori statali non hanno completato il corso di studi”, spiegano gli autori del dossier. “Si tratta del 31,9 per cento dei circa 9 milioni di studenti che hanno iniziato in questi tre lustri le superiori nella scuola statale”. Facendo i calcoli è come se l’intera popolazione scolastica di Piemonte, Lombardia e Veneto non ce l’abbia fatta.

Un fenomeno nazionale, che unisce nord e sud passando per il centro e le isole. Si passa da regioni più virtuose come l’Umbria e le Marche dove circa l’80 per cento degli studenti termina il quinquennio, a regioni come la Sicilia, la Sardegna e la Campania dove il dato arriva a poco più del 60 per cento. Un problema che colpisce anche le regioni settentrionali, dove la quota più allarmante si registra in Lombardia, con il 29,8 per cento, seguita dalla Toscana con il 28,4 per cento di ragazzi persi per strada prima del quinto anno.

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Le cose poi variano molto di provincia in provincia, come se ogni regione d’Italia avesse la sua sacca di dispersione scolastica. Province nella stessa regione presentano tassi di abbandono molto diversi. Per esempio Firenze e Prato, dove rispettivamente il 29 e il 38 per cento degli studenti non completano il quinquennio. La maglia nera va a Caltanissetta, dove quasi la metà degli studenti non termina il ciclo delle scuole superiori (41,7 per cento), seguita da Palermo e Catania (rispettivamente 40,1 per cento e 38,6 per cento). Ciò significa che in queste province quattro studenti su dieci abbandonano i banchi precocemente.

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Una distribuzione a macchia di leopardo che ridimensiona il divario tra mezzogiorno e resto d’Italia. Se infatti Caltanissetta spicca in negativo, al meridione appartiene anche la provincia che presenta il tasso di dispersione più basso: Benevento, con il 14 per cento di dispersi prima di finire le superiori. Allo stesso tempo, tra le province con il più alto tasso di abbandono ne compaiono alcune del centronord come Prato (38,5 per cento) e Asti (36,3 per cento).

Nel tempo le cose sembrano migliorare, ma il fenomeno è duro a morire. Nel 2000 i ragazzi non arrivati al diploma del quinto anno erano stati 216.805, cioè il 36,8 per cento di quelli che erano presenti al primo anno. Nel 2014 si è scesi alle 167mila unità, pari al 27,9 per cento. Di questi, 69mila sono usciti dopo il primo anno, 22mila dopo il secondo, 39mila dopo il terzo e 37mila prima dell’ultimo anno. Concentrandosi sul biennio dell’obbligo a livello nazionale, il 15 per cento dei giovanissimi italiani nell’anno scolastico 2013-14 ha lasciato i banchi senza completare il terzo anno delle scuole superiori.

I numeri cambiano molto tra i vari indirizzi scolastici. Negli istituti professionali quattro studenti su dieci lasciano i banchi prima del quinto anno, a fronte di circa due su dieci dei licei classico e scientifico. Anche gli indirizzi artistici hanno un tasso di abbandono molto alto: il 35 per cento.

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Quello della dispersione scolastica è un problema che passa inosservato, ma che porta con sé costi sociali, politici ed economici molto alti. Lo sa bene l’Europa che ha inserito tra i cinque obiettivi principali della Strategia Europa 2020 – il pacchetto decennale per la crescita e il lavoro lanciato dall’Unione europea nel 2010 – quello di ridurre al 10 per cento la quota di early school leavers, ossia dei giovani europei tra i 18 e i 24 anni che smettono di studiare dopo la licenza media (o l’equivalente europeo). I ragazzi che lasciano la scuola, spiega l’Unione europea, “sono più soggetti alla disoccupazione, hanno bisogno di più sussidi sociali e sono ad alto rischio di esclusione sociale, con conseguenze sul benessere e la salute. Inoltre, tendono a partecipare meno ai processi democratici”.

Nel contesto europeo l’Italia appare ai piani bassi della classifica, con il 17 per cento di early school leavers registrati nel 2013. Un dato che posiziona il nostro paese a pari merito con la Romania. Ben al di sotto della media dei ventotto paesi europei, pari al 12 per cento. E lontanissima dalle prime in classifica, come Slovenia e Croazia, entrambe sotto il 5 per cento.

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Il quadro è drammatico anche dal punto di vista economico. Il fatto che 167mila ragazzi abbandonano la scuola prima del termine del quinquennio vanifica gli sforzi di 12.800 professori. E quindi è come se facesse sprecare 503 milioni di euro all’anno per la fine di ogni ciclo della scuola superiore.

Molti dispersi finiscono inoltre per rientrare nella categoria dei neet, i giovani che non studiano e non lavorano (not in education, employment or training). L’Istat, nel rapporto Noi Italia 2014, ne ha contati oltre due milioni, circa il 24 per cento dei giovani tra i 15 e i 29 anni. Una quota significativamente superiore a quella media dell’Unione europea (15,9 per cento di inattivi).

Altre stime, come quella del rapporto Social Justice in the EU, parlano del 32 per cento di giovani italiani inattivi di età compresa tra i 20 e 24 anni. E ha un costo enorme sull’economia: Confindustria stima un costo pari a 32,5 miliardi di euro l’anno. Se i giovani inattivi entrassero nel sistema produttivo, il prodotto interno lordo italiano salirebbe di 2 punti.

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