01 giugno 2016 20:40

La prostituzione è davvero “un lavoro come un altro”? Se è così, possiamo ritenerla una buona cosa? Amnesty international ha ufficialmente deciso di sostenere la depenalizzazione della prostituzione in tutto il mondo, ritenendola lo strumento migliore per ridurre la violenza nel settore e proteggere i “lavoratori del sesso” e le persone che sono costrette a prostituirsi.

“I lavoratori del sesso sono esposti a violazioni dei diritti umani come lo stupro, la violenza, l’estorsione e la discriminazione”, ha dichiarato Tawanda Mutasah, responsabile di Amnesty international per le questioni di legislazione e politiche. “I governi devono proteggere meglio queste persone dalle violazioni e dagli abusi”.

“Vogliamo che le leggi siano riviste per rendere più sicura la vita di queste persone e migliorare il loro rapporto con le forze di polizia, affrontando nel frattempo il grave problema dello sfruttamento”, ha aggiunto Mutasah, sottolineando che il lavoro forzato, lo sfruttamento dei minori e il traffico di esseri umani rappresentano violazioni dei diritti umani che in base al diritto internazionale devono essere criminalizzate in tutti i paesi. “Vogliamo che i governi si assicurino che nessuno sia costretto a vendere il proprio corpo o sia impossibilitato a smettere di farlo”.

La proposta della più famosa organizzazione mondiale per i diritti umani ha scatenato diverse proteste, soprattutto da parte di alcune femministe convinte che la depenalizzazione “legittimerà” un’industria che sfrutta le donne.

Sempre più paesi scelgono il ‘modello nordico’: combattere la prostituzione criminalizzando i clienti

Mentre i lavoratori del sesso di tutto il mondo si battono per avere migliori condizioni di lavoro e protezione legale, sempre più paesi scelgono di adottare il “modello nordico”: combattere la prostituzione criminalizzando i clienti, in gran parte uomini. Amnesty international, insieme ad altre organizzazioni che difendono i diritti dei lavoratori del sesso, sostiene che il modello nordico favorisce la clandestinità e non protegge i lavoratori dalla discriminazione e dall’abuso.

Gli schieramenti si sono delineati, e le “guerre femministe del sesso” degli anni ottanta sembrano tornate. Gloria Steinem, contraria alla scelta di Amnesty, è una delle attiviste convinte che l’espressione “lavoratori del sesso” sia dannosa. “L’espressione è stata coniata negli Stati Uniti con buone intenzioni, ma è pericolosa. Per esempio ha permesso ai governi di negare i sussidi di disoccupazione e altri aiuti alle persone che la rifiutano”, ha scritto su Facebook nel 2015.

“Naturalmente siamo liberi di definirci come preferiamo”, ha argomentato Steinem, “ma quando ci riferiamo agli altri, qualsiasi cosa che comporti un’invasione corporea – che sia la prostituzione, il trapianto d’organi o la gravidanza surrogata – non dev’essere forzata”. Steinem vorrebbe che le Nazioni Unite sostituissero l’espressione “lavoratori del sesso” con “donne, bambini o persone che si prostituiscono”.

Questo è l’unico campo in cui alcuni progressisti moderni arrivano a mettere seriamente in discussione il fatto che il lavoro sia inequivocabilmente un bene per la società. L’espressione “lavoratori del sesso” è cruciale proprio perché evidenzia il problema. Prendiamo la lettera aperta pubblicata di recente da una ex prostituta, “Rae”, oggi esponente del fronte abolizionista: “Svolgere un’attività sessuale spinti dalla disperazione non è una scelta. Utilizzare una povera donna per la soddisfazione intima, consapevoli che si presta solo perché ha bisogno di soldi, non è un atto neutrale”.

Definire la prostituzione un lavoro come un altro significa vederla in chiave positiva solo se consideriamo il lavoro un bene.

Sono completamente d’accordo. È essenziale stabilire quanto vale il consenso dato da una persona che ha un disperato bisogno di denaro. È per questo che l’espressione “lavoratori del sesso” è fondamentale: ci fa capire che il problema non è il sesso ma il lavoro, svolto all’interno di una cultura di violenza patriarcale che umilia i lavoratori in generale e le donne in particolare.

Definire la prostituzione “un lavoro come un altro” significa vederla in chiave positiva solo se consideriamo il “lavoro” un bene. Nel mondo reale la gente svolge mansioni orribili che non vorrebbe mai svolgere, spinta dalla disperazione e unicamente per sopravvivere. Le persone fanno lavori noiosi, disgustosi e umilianti perché non hanno altra scelta. Oggi siamo incoraggiati a non pensare troppo a questo aspetto e ad accettare queste condizioni, perché “è così che va il mondo”.

La filosofa femminista Kathi Weeks definisce questa depoliticizzazione del lavoro con l’espressione “società del lavoro”, indicando un’ideologia secondo cui è scontato che il lavoro di ogni tipo sia liberatorio, salutare e gratificante. È per questo che il concetto di “lavoro” nell’espressione “lavoratori del sesso” è un problema per i conservatori ma anche per le femministe radicali. “Oppressione o professione?”, è la domanda posta dall’eccellente articolo di Emily Balezon sul New York Times Magazine. Ma perché vendere il proprio corpo non può essere entrambe le cose? Le femministe liberali hanno tentato di trovare la quadratura del cerchio ribadendo che la prostituzione “non è un lavoro come un altro”, equiparando il lavoro sessuale allo “stupro commerciale” (parole di Steinem) ed escludendo qualsiasi possibilità di agire per garantire migliori diritti ai lavoratori del sesso.

L’ortodossia neoliberista

I dubbi sulla validità del consenso da parte dei lavoratori del sesso sono validi per qualsiasi lavoratore di qualsiasi settore, fatta eccezione per coloro che sono ricchi a prescindere dal lavoro che fanno. La scelta tra prostituirsi e fare la fame non è esattamente una scelta libera, ma non lo è nemmeno quella tra pulire le strade e fare la fame, o tra fare la cameriera e fare la fame. Naturalmente in questa economia precaria tutti i lavoratori sono costretti a fingere che la loro massima aspirazione sia raccogliere la spazzatura o preparare cappuccini o qualsiasi altra cosa debbano fare per pagare le bollette. Non basta presentarsi sul luogo di lavoro e svolgere una mansione: dobbiamo anche inchinarci alla società del lavoro ogni giorno.

Nelle decennali “guerre femministe del sesso” l’unica scelta a disposizione è tra la visione conservatrice radicale della sessualità commerciale (ogni transazione che riguarda il sesso dev’essere considerata immorale e dannosa) e la versione del lavoro sessuale in cui dobbiamo pensare alla professione come “gratificante” perché l’ortodossia neoliberista considera gratificante ogni genere di lavoro.

La conseguenza è che spesso i lavoratori del sesso si sentono impossibilitati a lamentarsi delle proprie condizioni di lavoro se vogliono chiedere più diritti. I lavoratori del sesso con cui ho parlato, di qualsiasi estrazione sociale, vorrebbero semplicemente guadagnarsi da vivere senza essere molestati, feriti o prevaricati dallo stato. Vogliono la protezione di base garantita agli altri lavoratori: dall’abuso, dal furto degli introiti, dall’estorsione e dalla coercizione.

La legalizzazione del lavoro sessuale è solo una riduzione del danno in un sistema oppressivo

Spesso viene proposta una falsa distinzione tra femminismo pro-sesso e anti-sesso. Personalmente non sono né pro né anti: sono critica nei confronti del sesso e anti-lavoro. Steinem teme che se “lavoratori del sesso” diventerà una terminologia accettata, gli stati potrebbero chiedere alle persone di prostituirsi per beneficiare dell’assistenza statale. Naturalmente è uno scenario mostruoso, ma nasce dall’accettazione generale del fatto che gli stati possano costringere le persone a svolgere un lavoro che non hanno scelto per accedere all’assistenza sociale. Quand’è che questo è diventato normale? Perché è terrificante e degradante solo quando il lavoro di cui si parla è la prostituzione?

Sostengo l’abolizione del lavoro sessuale, ma non quanto sostengo l’abolizione del lavoro in generale, dove con “lavoro” s’intende “l’obbligo economico e morale a vendere la propria attività per sopravvivere”. Non credo che costringere le persone a passare la maggior parte della loro vita a svolgere un lavoro degradante e sfiancante per il privilegio di avere un posto dove dormire e un po’ di cibo sia un “atto moralmente neutrale”.

Man mano che aumenta il numero di mansioni svolte dalle macchine e aumentano anche i lavori sottopagati e precari, la sinistra riscopre la politica anti-lavoro, una politica che non difende solo il diritto a lavorare “meglio” ma anche il diritto, se le condizioni lo permettono, a lavorare meno. Anche questa è una causa femminista. Vista attraverso la lente dalla politica anti-lavoro, la legalizzazione del lavoro sessuale significa solo una riduzione del danno in un sistema che è inevitabilmente oppressivo. È l’inizio, più che la fine, di una conversazione su cosa è morale essere costretti a fare con il proprio corpo e con il tempo che abbiamo a disposizione su questa terra.

Il lavoro sessuale dovrebbe essere legale nell’ambito del processo che ci porterà a capire che la società del lavoro è dannosa. L’insistenza del femminismo liberale sullo sfruttamento insito nel lavoro sessuale oscura la natura predatrice di tutti i lavori stipendiati e precari, ma non è inevitabile che sia così. Forse se cominciassimo ad ascoltare davvero i lavoratori del sesso, come ha fatto Amnesty international, potremmo affrontare più onestamente lo sfruttamento: non solo quello dell’industria del sesso, ma di tutte le industrie.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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