29 gennaio 2013 12:58

Il mio ultimo post sulla dieta vegetariana, “Essere vegetariano non è una malattia”, ha generato così tanti commenti, alcuni anche molto critici nei miei confronti, che ho deciso di fare un seguito.

Volevo cominciare citando un brano tratto dal libro

Eating animals di Jonathan Safran Foer (tradotto in italiano con un titolo molto meno sintetico, e molto meno bello: Se niente importa. Perché mangiamo gli animali). Se non l’avete letto, è un libro che consiglio vivamente a tutti, onnivori, vegetariani, fruttariani e vegani. La traduzione dall’inglese qui di seguito è mia:

“La scelta di mangiare la carne è una cosa che tende a polarizzare la gente. O non la mangi mai o la mangi sempre. O diventi attivista o disprezzi gli attivisti. È un modo di pensare che non applicheremmo mai ad altri campi dell’etica (immaginate se si dovesse scegliere tra non mentire mai o mentire sempre). Non so quante volte, quando dico che sono vegetariano, il mio interlocutore cerca di segnalare una contraddizione nel mio stile di vita o di trovare il punto debole in una tesi che non ho mai sostenuto”.

Allora, comincio con una mea culpa. Sì, e vero, mangiando il pesce ma non la carne, non sono vegetariano. Nell’articolo mi sono definito “vegetariano pescivoro” in modo pigro solo per spiegare quello che mangio, non perché volevo entrare per la porta di servizio in un club di cui non sono socio.

In effetti manca un sostantivo per definire la scelta che ho fatto (un lettore ha suggerito “cretino”, ma dopo aver consultato il dizionario mi sa che non va bene neanche questo). Ma d’ora in poi, vista la reazione che ho scatenato, non userò più la parola “vegetariano” parlando di me. Sono uno che non mangia carne, e basta. Sono un non-carnivoro.

Però è altrettanto vero che, a voler essere pignoli, chi porta le scarpe di cuoio non può definirsi vegetariano. Se hai fatto una scelta animalista, non ti puoi limitare a quello che ti metti in bocca. Se una volta hai mangiato un boccone di Parmigiano Reggiano dop o Grana Padana dop, non sei vegetariano. Come la stragrande maggioranza dei formaggi, sono fatti con il caglio animale, un coagulante che proviene generalmente dallo stomaco (abomaso) del vitello lattante. Se hai schiacciato una zanzara che ti stava succhiando il sangue, non sei vegetariano. Anche gli insetti sono animali.

E i vegani? Anche qui ci sono problemi. Da tanti anni nel mondo vegano imperversa il dibattito sul miele: cioè se un cibo proveniente dallo sfruttamento delle api (o la rapina, in caso di api selvatiche) sia consentito a chi esclude l’uso di prodotti di origine animale. È chiaro che l’unica risposta coerente è: no, mi dispiace, niente miele.

Ma l’esistenza di questo dibattito dimostra che ci sono zone grigie anche tra i vegetariani, anche tra i vegani. Ed è giusto che ci siano. Dal momento che hai fatto una scelta etica sul cibo, sui vestiti, su tutto, decidi tu dove tracciare il limite della tua coerenza.

Siccome so che questo mi esporrà ad altre critiche, vorrei precisare che non considero il pesce una “zona grigia” del regno animale. Sono animali, punto. Come ho già detto, mangio il pesce, dunque non sono vegetariano.

Però, trovo strano che quasi nessuno di quelli che sono andati su tutte le furie quando ho usato la parola “vegetariano” sembrava interessato ai motivi della mia scelta. Sono diventato vegetariano (vero) all’età di 15 anni, 36 anni fa, per una serie di motivi. All’epoca la cosa più importante per me era il fatto che delegare ad altre persone le schifezze che facciamo agli animali è un atto di vigliaccheria.

Quanti carnivori rimarrebbero carnivori se fossero costretti a passare un giorno a lavorare in un allevamento di tacchini come questo? O se, per ogni cento hamburger che mangiano, dovessero azionare personalmente la pistola pneumatica per abbattere una mucca nel mattatoio?

Con gli anni, questo impulso originale è stato rinforzato da altri ragionamenti. Uno di quelli più forti è legato agli umani, non agli animali. Su questo pianeta un bambino muore di malnutrizione ogni due secondi. In un solo paese di questo pianeta, gli Stati Uniti, il grano, la soia e gli altri mangimi dati da mangiare agli animali destinati al macello potrebbero sfamare 1,3 miliardi di persone.

Poi, quando ho cominciato a viaggiare molto, circa 25 anni fa, una passione che si è man mano tramutata nella professione di scrittore di viaggi, mi sono trovato molto spesso in paesi o in situazioni dov’era molto difficile essere vegetariano (soprattutto se dovevo parlare anche dei ristoranti). A un certo punto, non senza qualche sofferenza, ho deciso che avrei cominciato a mangiare ogni tanto il pesce, ma mai di allevamento.

Sì, lo so che i pesci sentono il dolore (ma detto questo non sono mai stato convinto dal pain argument portato all’estremo, perché si arriverebbe all’idea che non ci sono problemi a uccidere un bambino con un’analgesia congenita, cioè che non può sentire il dolore). Sì, lo so che la pesca allo strascico sta devastando gli oceani. Ma ho tracciato una linea nella sabbia per permettermi di conciliare lo stile di vita che ho scelto con le cose in cui credo. E non è una linea scelta a casaccio.

Per me, lo spreco di terreno agricolo legato alla dieta carnivora è un motivo molto forte nelle mie scelte alimentari. Mangiando il pesce, non di allevamento, non contribuisco a questo spreco. Questo è anche uno dei motivi che mi hanno convinto a non portare il cuoio.

Dirò anche che mangiare il pesce mi fa lottare con la coscienza, e un giorno spero di poter tornare a essere vegetariano. Mi trovo molto in sintonia con un aneddoto raccontato da Max Brod, che un giorno accompagnò l’amico Franz Kafka, diventato vegetariano da poco, a visitare un acquario. “A un tratto, si mise a parlare ai pesci nelle loro vasche illuminate”, scrive Brod. “Finalmente vi posso guardare in pace”, disse Kafka, “perché non vi mangio più”. Io i pesci non li guardo in pace.

Certo, se la mia unica obiezione alla dieta carnivora fosse l’allevamento degli animali, sia sotto l’aspetto della crudeltà inflitta sia sotto quello dello spreco di terreno agricolo, non dovrei avere problemi a mangiare la cacciagione. Ma non la mangio. Perché? Perché non ce la faccio. Punto e basta.

Immagino che per questa mia ammissione sarò accusato di mancanza di coerenza, di ipocrisia, e forse peggio. Ma qui volevo tornare alla citazione di Foer con cui ho aperto questo post (la carne “o non la mangi mai o la mangi sempre”). Non ho mai capito, per esempio, perché molti vegetariani veri disprezzano i flexatarians, quelli che mangiano la carne molto raramente, magari una volta al mese.

Io non li accuserei di ipocrisia. Se grazie alla loro dieta ogni anno sarà abbattuta una mucca di meno, c’è solo da essere contenti. Anche perché trovo il gioco “sono più vegetariano di te” triste e inutile. Mi fa venire in mente le dispute all’interno della sinistra italiana.

Domanda: chi è più coerente dal punto di vista etico, un carnivoro che mangia solo animali cresciuti allo stato brado o un vegetariano che porta le scarpe di cuoio?

Risposta: tutti e due, perché entrambi hanno fatto un ragionamento etico e stanno cercando di applicarlo.

Per finire, volevo offrire un’analogia con un altro campo etico del consumo: il riciclo. Come chi legge questo blog con una certa regolarità saprà, sono un riciclatore assiduo. Sono uno che arriva anche a strappare le finestre di pellicola traslucida dalle buste per separare la plastica e la carta da riciclare.

Però a volte, quando sono in viaggio, non riesco a riciclare tutti i rifiuti. Anche a casa mi assalgano dei dubbi: per esempio, bisogna togliere tutte le capsule dalla bottiglie di vino, sfilare tutti i punti metallici dalle riviste?

Ma se non riesco a raggiungere la perfezione nel riciclo, per motivi legati molto spesso alla mancanza di tempo, alla pigrizia, eccetera, non vuol dire che è meglio buttare tutto nel cassonetto dell’indifferenziato.

O mi sbaglio?

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