02 luglio 2013 12:56

Durante una crisi economica i più poveri perdono peso? In Italia sembrerebbe di sì. Negli Stati Uniti può succedere l’esatto contrario.

Ci sono molti studi sul paradosso povertà-obesità, ovvero il fatto che la food insecurity (insicurezza alimentare) tende a creare problemi di sovrappeso, almeno nei paesi sviluppati in cui l’industria agroalimentare e la grande distribuzione consentono di comprare cibi ricchi di zuccheri e carboidrati per pochi soldi. La food insecurity è definita dal dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti come “uno stato di disponibilità limitata o non sicura di cibi nutrienti, oppure l’incertezza sulla possibilità di rifornirsi di cibo in modi considerati normali dalla società civile”. In altre parole, se non sai quando mangerai il prossimo pasto o da dove arriverà, la tentazione è di abbuffarti ora, se puoi.

In Louisiana, uno degli stati più grassi e anche più poveri degli Stati Uniti, c’è un tasso di

food insecurity del 16,7 per cento. La connessione tra questo dato e l’obesità (più elevata tra le classi povere) è spiegata da Cindy Greenstein, direttrice della Louisiana food bank association, una ong che raccoglie cibo dalle mense per i poveri: “Le persone obese possono anche essere malnutrite”, spiega. “Optano per la quantità, non la qualità. Non è un problema di ingordigia, ma del fatto che vengono scelti i cibi che costano meno”. I bambini che vanno a scuola dopo una colazione a base di patatine e bevande gasate soffrono degli stessi problemi di comportamento, concentrazione e capacità di apprendimento di quelli che vanno a scuola affamati.

Un sondaggio tra 591 insegnanti nel Regno Unito, condotto dal Guardian un anno fa, sembra svelare l’altra faccia della medaglia. Si è scoperto che un professore su due portava a scuola del cibo per darlo ai ragazzi che si presentavano la mattina senza aver fatto colazione. E uno su cinque ammetteva di avere dato dei soldi di tasca propria agli alunni per comprarsi qualcosa da mangiare. Ma non è detto che questi ragazzi fossero tutti magri. Quello che è sicuro è che mangiavano male: nello stesso articolo del Guardian, una pediatra sottolineava che chi arriva a scuola affamato ha più probabilità di mangiare schifezze con alti contenuti di zuccheri per riempire il buco allo stomaco.

Il paradosso povertà/obesità esiste anche in Italia. A mio avviso, il dato che gli italiani stanno dimagrendo a causa della crisi è da prendere con le pinze. Infatti il Codacons arriva a questa tesi confrontando il peso medio degli italiani nel 1993 con quello di oggi: in questi vent’anni il peso medio degli uomini italiani è sceso di 2,8 chili (da 76,9 chili a 74,1 chili), mentre le donne pesano in media 1,2 chili in meno rispetto ad allora (sono passate da 60,3 a 59,1 chili).

Per fare un legame più diretto con la crisi, avrebbe avuto più senso prendere in considerazione solo gli ultimi cinque anni e poi dividere il peso medio per ceto sociale, reddito familiare, altezza media eccetera.

Ho il sospetto che la perdità di peso medio in Italia registrato negli ultimi vent’anni non c’entri molto con la crisi economica. È vero che gli anni dal 1993 a oggi sono quelli dello sbarco del fast food in Italia. Ma sono anche gli anni dell’affermazione del movimento Slow Food. È vero che in questo arco di tempo il consumo di pane e cerali in Italia è cresciuto, ma è aumentato anche il consumo di frutta e verdura e di pesce, mentre è diminuito il consumo di carne e quello di olii e grassi. La dieta mediterranea e la cultura del mangiare sano reggono anche in tempi di crisi.

Basta guardare due dei paesi più sviluppati del mondo per capire che il mangiar bene prescinde, molto spesso, da fattori economici. Gli statunitensi sono secondi solo agli abitanti della Micronesia per peso medio: un adulto medio negli Stati Uniti pesa 81,9 chili. I giapponesi, invece, pesano solo 59 chili in media – meno di togolesi, maliani, haitiani. Sì, sono anche più piccoli degli statunitensi di circa sei centimetri, ma il divario di peso in questo caso dovrebbe essere solo di 4-5 chili, non 13. Non c’entra la genetica: i giapponesi che si trasferiscono negli Stati Uniti si adeguano alle abitudini alimentari locali, cominciano a mettere peso e dopo una generazione, massimo due, i loro figli registrano gli stessi problemi cardiaci dei loro coetani americani.

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