25 febbraio 2015 11:04

L’identità della misteriosa Elena Ferrante è una delle poche pagine di interesse giornalistico della nostra letteratura. E il premio Strega è l’unico evento letterario che susciti un minimo di attenzione nella nostra opinione pubblica.

È dunque comprensibile che il collegamento improvvisamente aperto tra l’autrice dell’Amica geniale e gli Amici della domenica (con questa formula, che al sapore da vecchia sezione democristiana ha sovrapposto quello di una pagina Facebook, si indicano i giurati dello Strega) con l’autorevole proposta di una sua candidatura al premio abbia conquistato le prime pagine di siti e giornali. Molto onore per nulla, come cercherò di dire. Ma forse intanto qualcosa di istruttivo in questa vicenda c’è.

Una crescente insofferenza

Il primo nodo è la crescente insofferenza verso l’enigma della reale identità della scrittrice. L’assenza è un topos antico quanto la letteratura (non sappiamo chi era Shakespeare e se è davvero esistito un Omero, per esempio) e ha generato una infinità di pseudonimi, eteronimi, conflitti di attribuzioni.

Ferrante pubblica da più di venti anni e forse la curiosità sulla sua identità è aumentata grazie al suo successo. Ma porta anche il segno di una crescente insofferenza per la sottrazione ai valori dominanti nell’età della trasparenza. Come si permette di negarsi alla visibilità, di rifiutare il rito dei riconoscimenti, di irridere i meccanismi narcisisti trionfanti (o di inventarne uno tutto suo, oltranzista e spiazzante)?

In questi venti anni è come se il gesto semplice di non apparire avesse assunto un carattere equivoco solo perché contraddice una pretesa che, grazie alle tecnologie, si è insediata nella nostra sensibilità generando una nuova suscettibilità: tutto è accessibile, tutto si può (e dunque si deve) sapere.

La resistenza con cui Elena Ferrante si cela è perciò ammirevole: smaschera qualcosa di nascosto, evoca qualcosa di stregonesco, ovvero il dominio dell’onnipresenza. Se non altro per questo meriterebbe esattamente il premio cui concorre. E rende ridicoli i giochi di società intorno alla sua identità (a cui peraltro è ovviamente difficile sottrarsi: pensavo di essermene liberato quando quella che a me sembrava l’autrice più plausibile è scomparsa. Ma molti segnalano che in effetti c’è una rilevante differenza stilistica tra la Ferrante dell’Amore molesto e quella della tetralogia: il dietrologo che è sulle spalle di ciascuno di noi non si arrende mai).

Gran Premio degli Uffici Stampa

E che dire ancora di un premio così ambito, irriso, inseguito e svilito come il premio Strega? Che la sua natura è assai semplice e gli esiti cui conduce del tutto ovvi. Lo “storico corpo elettorale di quattrocento donne e uomini di cultura” non può che essere dominato dai gruppi editoriali più potenti.

Non c’è nemmeno bisogno della eventuale, paventata, indimostrata compravendita dei voti; uomini e donne che lavorano nella cultura e nell’editoria lo fanno secondo percentuali prevedibili. Il gruppo più grande ha più amici tra gli Amici (questo è un altro buon motivo per opporsi all’ennesima concentrazione editoriale: diventerebbero ancora più noiosi premi come lo Strega).

Le recentissime proposte di modifica del regolamento sono apprezzabili, ma in realtà basterebbe convenire più o meno silenziosamente sul fatto che ben più della qualità dei libri a conquistare il premio è un (legittimo) lavoro di organizzazione e convinzione. Insomma, trasformiamolo nel Gran Premio degli Uffici Stampa e tutto sarebbe più trasparente.

Perché infine, a parte la benvenuta attenzione dei giornali per qualcosa che comunque riguarda i libri, tutto questo rumore è poco giustificato? Perché candidare libri di qualità a prescindere dalla natura, salute, nominabilità dell’autore/autrice dovrebbe essere ovvio e infatti è già avvenuto. Non solo con la stessa Ferrante candidata nel 1992 (erano altri tempi, l’invisibilità era meno scandalosa e conturbante, non ci fu nessuna polemica significativa) ma anche in casi più clamorosi e meno dimenticabili.

Lo Strega del 1995 fu vinto da una straordinaria ragazza e una scrittrice davvero promettente purtroppo gravemente malata e scomparsa nel corso dei mesi della candidatura, con dolore di tanti ma senza turbamenti o discussioni particolari. Qualche anno fa candidammo una scrittrice eccezionale la cui infermità impedì la partecipazione a tutte le fasi del premio, senza pregiudicare nulla (se non il piacere che avrebbe rappresentato leggere ancora i suoi libri). Nulla di strano, dunque, né di anomalo o di inedito. Ma tutto questo clamore porta a galla un paio di tic dell’informazione contemporanea, tra i principali responsabili della sua degenerazione.

Il primo è la trasmutazione in evento inusitato, inaudito, inimmaginabile di fatti di limitata portata e di ridotta novità. Il secondo è la costruzione antagonistica: chi si oppone alla candidatura della Ferrante? Chi sono i Gufi? Quasi nessuno, per la verità. Il premio ci guadagna in credibilità e popolarità, e forse perfino il Grande Editore troverà utile risparmiarci per un anno la sua (pre)potenza, dato che dovrà affrontare un’impresa ben più scomoda.

L’unico effetto della improvvisa sovrapposizione è rivelare paradossalmente una identità della Ferrante: quando scrive che se non entrasse nemmeno nella cinquina dei finalisti “si potrà dire definitivamente, senza ombra di dubbio, che lo Strega così com’è è irriformabile e che quindi va buttato per aria” ripete quello che da anni sostiene qualunque candidato a questo come ad altri premi.

La sua umana, troppo umana reazione alla implausibile possibilità di essere esclusa ci consente di misurare quanto possa essere normale questa scrittrice speciale e che dunque, sì, Elena Ferrante esiste.

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