29 settembre 2016 11:00

Non so quante volte l’ho vista scritta o l’ho sentita ripetere: è ovunque. La frase si è guadagnata un suo spazio, il luogo più comune di tutti, e non si discute: in America Latina la sinistra ha fallito.

È un concetto così radicato che nessuno ci riflette più: è la forza del cliché. Il fallimento della sinistra in America Latina è uno di questi concetti. Il fallimento dei governi del Venezuela, dell’Argentina o del Brasile in questo inizio di secolo è evidente, ed è ovvio che è successo in America Latina; meno ovvio è che quella che tanti hanno deciso di chiamare sinistra fosse sinistra.

C’è stato, però, un accordo più o meno tacito. Chiamare sinistra movimenti così diversi tra loro faceva comodo a tutti: prima di tutto ai politici che sono arrivati al potere nei loro paesi. Alcuni in effetti erano di sinistra (Evo Morales, Lula) e avevano alle spalle una lunga storia di battaglie sociali. Altri, appena usciti dall’esercito, dall’accademia o dai partiti del sistema, hanno semplicemente capito che dopo i disastri economici e sociali del decennio neoliberista niente avrebbe funzionato meglio che presentarsi come paladini di una certa sinistra. Ma i proclami e la realtà possono essere molto diversi: come si dice, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

Minimo comune denominatore
La discussione, come qualsiasi discussione che valga la pena affrontare, è complicata: per cominciare bisognerebbe mettersi d’accordo su cosa significhi “sinistra”. È un annoso dibattito e i suoi meandri occupano intere biblioteche, ma forse potremmo trovare un minimo comune denominatore: una politica di sinistra comporta quantomeno il fatto che lo stato, come strumento politico della società, lavori per garantire che tutti quelli che ne fanno parte abbiano cibo, assistenza sanitaria, istruzione, casa e sicurezza. E che cerchi di ridistribuire la ricchezza per ridurre il più possibile la disuguaglianza sociale ed economica.

Penso che in molti paesi latinoamericani sia stato realizzato poco di tutto questo. Ma pensare e parlare è relativamente facile. Per questo, per cominciare a riflettere sulla questione, è importante analizzare le cifre che mostrano cosa c’è oltre le parole e i discorsi. Chiaramente lo spazio di un articolo non basta per una revisione completa: ogni paese è un mondo. Quindi mi concentrerò sull’esempio che conosco meglio: l’Argentina del peronismo kirchnerista.

Negli anni del kirchnerismo è aumentata la disuguaglianza nell’accesso ai diritti di base, come l’istruzione e la sanità

Partiamo dalle condizioni generali: dal 2003 al 2012 il prezzo della soia, il principale bene di esportazione del paese, è triplicato. L’aumento dei prezzi globali delle materie prime ha garantito all’Argentina il periodo di maggiore ricchezza da decine di anni. Nonostante questo vantaggio e dodici anni di discorsi sinistroidi, a dicembre del 2015 Cristina Fernández de Kirchner ha lasciato il paese con un 29 per cento di cittadini che non possono soddisfare i loro bisogni di base: dieci milioni di poveri, due milioni di indigenti. Il 56 per cento dei lavoratori non ha un impiego stabile e legale: sono disoccupati, suboccupati, lavoratori in nero e precari. Un terzo delle case non è collegata alle fognature e una su dieci non ha acqua corrente. Ci sono quasi cinque milioni di persone malnutrite in un paese che produce alimenti per centinaia di milioni, ma preferisce venderli all’estero.

Chiaramente, però, la versione ufficiale era diversa: nel giugno del 2015 Fernández ha detto all’assemblea della Fao che nel suo paese i poveri erano solo il 4,7 per cento, e il suo capo gabinetto ha dichiarato che in Argentina c’erano “meno poveri che in Germania”. Per ottenere questo risultato, diversi anni prima il suo governo aveva adottato una misura decisiva, assumendo il controllo dell’istituto nazionale di statistica, obbligando i suoi ricercatori a produrre dati perfettamente inverosimili.

Nonostante i discorsi, negli anni del kirchnerismo è aumentata anche la disuguaglianza nell’accesso ai diritti di base, come l’istruzione e la sanità. Nel 1996 il 24,6 per cento degli studenti frequentava scuole private, nel 2003 la cifra era invariata, nel 2014 era arrivata al 29 per cento. Gli argentini preferiscono l’istruzione privata a quella pubblica, ma non tutti possono permettersela: la possibilità di usufruirne è un fattore di disuguaglianza importante, che in questi anni è cresciuto del 20 per cento.

La follia personalistica
Nel 1996 metà della popolazione poteva contare sui servizi medici dei sindacati, il 13 per cento su un’assicurazione medica privata e il resto, il 36 per cento più povero, doveva arrangiarsi con la sanità pubblica. La proporzione è la stessa: tra i 15 e i 17 milioni di persone sono costrette ad affidarsi alla medicina pubblica, dove molte cose funzionano malissimo. È la disuguaglianza più dolorosa, come ha potuto capire Fernández quando nel dicembre del 2014 si è fatta male a una caviglia in una delle sue residenze patagoniche ed è stata trasportata all’ospedale provinciale di Santa Cruz. Lì le hanno spiegato che non potevano curarla perché il tomografo era rotto da più di un anno e l’hanno mandata in aereo a Buenos Aires, 2.500 chilometri più a nord.

Mentre le differenze tra poveri e ricchi aumentavano, mentre l’esclusione di un quarto della popolazione produceva sempre più violenza, le grandi imprese continuavano a farla da padrone. Nell’agosto del 2012 Cristina Fernández lo annunciava sorridendo: “Le banche non hanno mai fatto così tanti soldi come con questo governo”. Era vero: nel 2005 guadagnavano lo 0,33 per cento del pil, nel 2012 i loro guadagni erano più che triplicati.

Quello stesso anno il Fondo monetario internazionale ha detto che la redditività dei titoli delle banche argentine era la più alta del G20, quattro volte più che in Brasile. L’economia in generale ha proseguito sulla strada delle concentrazioni inaugurata da Carlos Menem: nel 1993, 56 delle duecento aziende più forti del paese avevano capitale straniero e rappresentavano il 23 per cento del fatturato totale. Nel 2010 erano più del doppio (115) e generavano più della metà del fatturato.

Senza tenere conto dell’infinità di episodi di corruzione che tengono impegnati i tribunali di giustizia con ministri, sottosegretari, imprenditori amici, la stessa presidente. È possibile definire “di sinistra” un gruppo di persone che ruba milioni e milioni di fondi pubblici per uso personale?

Non parliamo poi della follia personalistica che spinge questi governanti a identificare le loro politiche – e ovviamente l’Argentina – con loro stessi. Si può definire “di sinistra” una persona che disprezza così tanto gli altri da ritenersi indispensabile, insostituibile?

Ma questo è un altro discorso. Nel frattempo, sarebbe interessante ripetere l’operazione in altri paesi: confrontare anche in quei casi i proclami e i risultati. Forse anche altrove salterebbe fuori la differenza tra la redistribuzione della ricchezza che un governo di sinistra dovrebbe portare avanti e l’assistenzialismo clientelare che viene messo in pratica. Forse allora capiremmo perché, mentre alcuni di questi governi si proclamavano di sinistra, i loro stessi teorici li chiamavano populisti, una tendenza che la sinistra ha sempre denunciato, convinta che fosse un modo per deviare le richieste del popolo: tranquillizzare i più bisognosi con l’elemosina – sussidi, assegni – che li rendono sempre più dipendenti dal partito al potere.

Ma il luogo comune vuole che a fallire sia stata la sinistra, e questo fa comodo a quasi tutti. Ai governi di quei paesi (o a quello che ne resta), per legittimarsi. E ai loro oppositori dell’establishment, per avere qualcuno da accusare, da cui prendere le distanze, e per screditare e disinnescare, per chissà quanto tempo, qualsiasi progetto di vera sinistra.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Questo articolo è uscito sul quotidiano statunitense The New York Times.

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