09 dicembre 2014 17:10

Nella cosmogonia babilonese c’è una divinità malvagia che è re dei venti e demone del libeccio: si chiama Pazuzu e viene rappresentato come un incrocio tra un angelo e una chimera gallinacea. Pazuzu è anche il protagonista del romanzo L’esorcista di William Peter Blatty, da cui William Friedkin trasse l’horror di possessione demoniaca più famoso della storia del cinema.

Esiste su Facebook una comunità che si chiama “Pazuzu al Quirinale”: 214 persone (mentre scrivo) hanno messo mi piace alla suddetta pagina. Io non so nulla delle divinità babilonesi, ma per ragioni culturali conosco Pazuzu e il suo sguardo corrucciato, anzi ci sono affezionato.

L’altro giorno, quando si ventilava la possibilità di candidare Riccardo Muti alla presidenza della repubblica, ho proposto al suo posto Pazuzu per fare dell’ironia sull’altezzosità del maestro, che a mio parere si sposa poco con la carica di Presidente.

Poco dopo ho creato la pagina su Facebook, e i miei amici hanno esibito un discreto entusiasmo cliccando mi piace convinti. Amano i demoni? Vogliono che il male governi il paese? Sono esperti di civiltà babilonese? No: sono solo i miei amici e fanno gli scemi.

Su cosa significhino e cosa siano i mi piace di Facebook sono stati scritti infiniti articoli. Ormai è un collo di bottiglia talmente stretto, quello che porta mille gesti culturali e sociali a convergere sul like, da rendere quasi del tutto impossibile l’interpretazione delle intenzioni che stanno a monte.

Certo, nel caso di Pazuzu l’intento satirico paradossale è chiaro, ed è ovviamente lo stesso di chi ha creato la pagina. Ma l’ambiguità del significato di mi piace – ancora più intricato in italiano per via di quel mi personale – è chiaro a chiunque frequenti Facebook abitualmente. Ogni volta che lo stato di qualcuno rende conto di una notizia triste o grave, un lutto o un incidente, i mi piace non sono quello che dicono, ma partecipazioni, prese visioni, cenni col capo, quasi degli “eh sì”.

Se però l’argomento è controverso, diventa molto più complesso dipanare la matassa di quei cenni. Un esempio: l’hotel di gran lusso londinese Claridge’s consiglia alle sue facoltose ospiti di allattare in disparte per non disturbare la vista degli altri avventori; il leader del partito di destra populista Ukip, Nigel Farage, plaude a questa presa di posizione. Uomini e donne di tutto il mondo, uniti contro questa spaventosa comunione di intenti tra il formalismo asettico dell’alta società britannica e la misoginia sessuofoba della destra, pubblicano nella loro timeline la notizia o la reazione di qualche vip progressista.

I mi piace lì sotto possono essere di gente che è per l’allattamento libero, contro l’allattamento in pubblico, per il formalismo britannico, contro, affettuosamente ironica sullo stesso, fascista, libertaria, antifascista, fan dell’attore che commenta la notizia, per i seni al vento ogni volta che è possibile, e perfino un misto di tutto questo, compreso solo “Ah, però, interessante!”.

Quando la scorsa settimana un uomo ha accoltellato a morte l’ex moglie per poi scrivere su Facebook “Sei morta troia”, questa sua frase ha ricevuto oltre 300 mi piace prima che il profilo fosse bloccato. Un’ondata di indignazione si è diffusa sullo stesso mezzo e su altri, con commentatori che si dicevano orripilati da quella che leggevano come un’ondata di consenso per un reato così mostruoso. “Ma come si fa?”, era la chiosa più classica.

Alcuni sono arrivati a ipotizzare delle fattispecie di reato vicine all’istigazione a delinquere. Si tratta di quei casi in cui, per un moto naturale delle chiacchiere in piazza, che sorge con forza molto maggiore sui social network, un gruppo di persone è portato a ribadire in vari modi il concetto “Quanto fanno schifo gli altri!”.

Siccome è chiaro che esprimere un concetto di questo tipo non ha nessuna utilità, e non c’è niente di sostanziale in questa idea di “altri” che è in realtà solo una prospettiva individuale o di gruppo, ogni volta che vedo all’orizzonte questa sensazione cerco di fare un passo indietro. Anzi, per me il senso di schifo indistinto per masse di miei simili che conosco poco è un sintomo: significa che non ne so abbastanza e non mi sto ponendo le domande giuste.

Quanti di quei 300 sapevano che l’omicidio era stato davvero consumato? Quanti stavano dicendo “Ah, però!”? A quanti veniva da ridere per il contesto? Quanti erano in imbarazzo? Quanti avevano interagito nella loro vita con un uxoricida? Ma soprattutto a me serve a qualcosa ignorare la barriera che divide uno che fa lo scemo da un assassino?

Credo che rinunciare a una ragione di indignazione ogni volta che si può sia un bene. Soprattutto nei contesti sociali allargati, dove indignarsi implica un rischio autocelebrativo perfino in chi lo fa sinceramente senza narcisismo, è meglio sospendere il giudizio. Nel caso dei mi piace c’è stato un allagamento semantico talmente ampio da impedirci di capire alcunché.

La polizia postale, interpellata sulla Stampa, ha confermato l’assenza di un reato ascrivibile ai cliccatori, quindi sulla sostanza penale siamo tranquilli. Sul commento, possiamo solo ipotizzare, e io credo che abbia più senso ipotizzare in positivo, tenendo presente questo: gli altri sono più facilmente confusi, complicati o solo sciocchi che non mostruosi, e anche noi possiamo fare spesso un bel po’ schifo se ci giudicano da un cenno del capo.

P.S. Le iscrizioni a “Pazuzu al Quirinale” sono aperte. Affrettatevi.

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