17 marzo 2015 17:11
Stefano Gabbana e Domenico Dolce durante la settimana della moda a Milano, il 21 settembre 2014. (Vittorio Zunino Celotto, Getty Images)

Come probabilmente sapete tutti, Dolce e Gabbana sono al centro di una polemica internazionale a seguito di alcune loro dichiarazioni improvvide. Come saprete altrettanto bene, qualcuno cerca di opporre il tema della libertà di opinione, e lo fa partendo da una dichiarazione che nessuno ha né voluto né potuto arginare.

Questo fraintendimento tra libertà di esprimere delle opinioni e l’impossibilità di criticare e combattere le stesse ribadisce quanto siano tempi confusi: rispettiamo il diritto di tutti a parlare, ma quello che si dice influisce sul desiderio della collettività, o di alcuni gruppi di persone, di condividere o contrastare queste posizioni. Tutto molto normale, insomma: un pochino di educazione alla dialettica – vecchia scuola, roba degli antichi greci – fa comunque sempre bene. Ma il punto interessante è quello che Elton John per primo, e altre celebrità a modo loro, hanno deciso di fare: un boicottaggio contro Dolce e Gabbana.

Charles Boycott era un amministratore britannico di stanza in Irlanda, e gestiva i terreni e le proprietà di Lord Erne (John Crichton). La vicenda che diede al mondo la parola “boicottaggio” risale alla seconda metà dell’ottocento, quando a causa delle tariffe e delle modalità di trattamento di mezzadri e manodopera, Boycott fu oggetto di una campagna d’isolamento promossa dall’organizzazione politica Irish national land league, un embrione della campagna indipendentista e nazionalista irlandese.

La popolazione locale smise di lavorare per Boycott; i negozi di Ballinrobe, il paese vicino alla tenuta, non gli vendettero più niente; perfino il postino fu spinto a non effettuare più le consegne. Per occuparsi del raccolto nei terreni amministrati da Boycott, dopo una sua lettera accorata al Times, furono cooptati dei militari.

Il boicottaggio nasce quindi come una forma di ostracismo, di isolamento, di atto pubblico pacifico relativo a un amministratore, una figura istituzionale che si può osteggiare senza l’uso della forza. Il boicottaggio moderno è un boicottaggio commerciale, riguarda la società dei consumi, ed è figlio della fase in cui la lotta politica si spostò dall’opposizione frontale contro il sistema, all’idea che il registratore di cassa fosse politicamente rilevante come e più di una cabina elettorale.

La campagna di boicottaggio delle pellicce che esplose prima nel Regno Unito e poi negli Stati Uniti alla fine degli anni ottanta fu la prima manifestazione macroscopica di questa tendenza. Negli anni novanta prese corpo l’idea che le grandi aziende private e i gruppi finanziari fossero i veri detentori del potere, anche al di sopra delle istituzioni politiche. I tour degli U2 di quel periodo furono i primi a sostituire la politica, antagonista classica nell’estetica rock, con i loghi delle grandi multinazionali, in una dialettica autoironica che li portò ad adottare un arco del logo di McDonald’s e il nome della più grande catena di supermercati d’America come simbolo e nome di un proprio tour: PopMart.

Molta critica nei confronti delle grandi aziende americane viene dal Canada, paese da sempre molto attento a non essere assorbito da etica ed estetica statunitensi. Adbusters media foundation, un’associazione ambientalista e anticonsumista di Vancouver, diffuse finte pubblicità di alcolici e sigarette che sottolineavano i danni alla salute nascosti dalla comunicazione ufficiale: Joe Camel diventò Joe Chemo (cioè Joe Chemio), cammello che non rappresentava più la libertà di fumare, ma il ricovero in seguito agli effetti del fumo.

No logo di Naomi Klein, anche lei canadese di Montréal, fu il libro che fissò questi princìpi. Una generazione di giovani attivisti politici identificò nel potere economico internazionale l’obiettivo del proprio boicottaggio, e la conferenza del Wto di Seattle del 1999 fu il momento topico del cosiddetto movimento no global.

Quello di cui parliamo in questi giorni è un boicottaggio di natura completamente diversa, contemporanea e sociale. Dalla fine del movimento no global come forma condivisa di opposizione politica, il nostro modo di essere in relazione tra noi è molto cambiato. I social network sono diventati uno strumento quotidiano di comunicazione a qualsiasi livello: un flirt, le foto del figlio neonato del nostro amico d’infanzia e una campagna pubblicitaria sono nello stesso posto.

Ciascuno di noi condivide quotidianamente informazioni sui prodotti che ci piacciono, realizzando una forma di passaparola ricco e condiviso che i moderni adepti di Naomi Klein chiamerebbero “marketing gratuito”, rappresentando i consumatori come fedeli di un culto che prevede un proselitismo costante. Ma chi considera i social network uno strumento di omologazione consumistica è abbastanza marginale. E le cose sono ovviamente più leggere e complesse di così.

A differenza di quello che succedeva in passato, il tipo di boicottaggio di cui sono oggetto Dolce e Gabbana vive in un flusso quotidiano di preferenze: un lavoro costante e naturale di condivisione di gradimento e critica, dove l’ironia, lo sdegno, la parodia, l’ammirazione e il dileggio sono costanti. In questo contesto non è possibile che dichiarazioni molto incaute nella forma e decisamente discutibili nella sostanza, come quelle fatte da Domenico Dolce su Panorama, non ricevano una risposta. Tutto riceve “risposte”, perfino la notizia che sabato pioverà, e non si vede perché dovrebbero essere ignorate le idee di uno stilista.

Certo, Elton John ha usato #BoycottDolceGabbana come hashtag, ma la sua presa di posizione è molto diversa da quella di Morrissey del 2004, quando il cantante e animalista inglese diffuse una foto in cui, seduto su un divano insieme a tre cani, mostrava un cartello con scritto “We hate Iams”, dopo che si era scoperto che nei laboratori del grande produttore di mangimi (gruppo Procter & Gamble) gli animali venivano maltrattati durante gli esperimenti. Undici anni fa una presa di posizione del genere era una notizia, e ci arrivava attraverso un comunicato stampa che legava una figura pubblica a una causa. Oggi ci sono canali diretti sempre aperti e formalmente paritari tra noi e le celebrità. Avere opinioni e prendere posizione è una pratica quotidiana di chiunque, comprese le stelle di sport, spettacolo e arte.

Il boicottaggio nell’epoca di Twitter, Facebook e Instagram è un boicottaggio implicito. Si percepisce, anche nelle forme più sdegnose e militanti, il senso di una differenza quantitativa, più che qualitativa. Siamo immersi in un profluvio di informazioni promozionali pagate dalle aziende, mentre i nostri amici sono entusiasti di un prodotto, detestano una pubblicità, hanno adorato quella canzone e sono infastiditi dal film del momento.

Mentre fischiano come pallottole in un western le piccole campagne quotidiane per non mangiare carne, eliminare l’olio di palma, fare a meno di quella marca che sta per licenziare i dipendenti e spostare la produzione a est, l’appello di Elton John o il rogo di abiti promesso da Courtney Love sono solo le vette di una catena montuosa che frequentiamo ogni giorno. Pensare che siano sbagliati a priori equivale a chiedere che i singoli non esprimano più giudizi o valutazioni su alcunché: è anacronistico almeno dalla metà del diciannovesimo secolo, ma di questi tempi è ridicolo e insensato.

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