14 settembre 2015 16:48

Cos’è. È il documentario di Crystal Moselle che racconta la storia della famiglia Angulo, molto particolare per una strana piega che ha preso la vita dei suoi nove componenti (padre messicano, madre del midwest, sei figli maschi e una femmina, tutti con nomi di divinità indiane) per molti anni. Gli Angulo vivono in un appartamento in un palazzo popolare del Lower east side di Manhattan. Il padre è un anarcoide a cui piace molto l’alcol e che rifiuta il lavoro vedendolo come una costrizione sociale. La madre fa da insegnante ai figli a casa, anziché mandarli a scuola. Presto i genitori si convincono che sia meglio che i ragazzi non si mescolino alla società, perché New York è pericolosa. E per una decina d’anni i ragazzi stanno in casa, tranne rarissime occasioni in cui la famiglia esce al completo, ma con l’indicazione di non parlare con nessuno. L’unica cosa che i ragazzi hanno sono dvd e videocassette (non hanno computer, smartphone o connessione a internet), così diventano dei fanatici di cinema. Il documentario racconta questa storia e documenta la fase in cui i ragazzi si ribellano a questa costrizione cominciando a uscire. The wolfpack ha vinto il premio della giuria all’ultimo Sundance Festival.

The wolfpack

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Com’è. Crystal Moselle passeggiava per Manhattan e ha incrociato sei ragazzi vestiti come le iene del film di Quentin Tarantino. Li ha fermati e ha scovato questa storia incredibile. Avendo conquistato la loro fiducia, soprattutto nel contesto molto fragile di una famiglia come questa, è anche tecnicamente l’unica testimone della storia del “branco di lupi” e della vita nel piccolo appartamento dove abitano con i genitori. Il resto del film è materiale girato dai ragazzi stessi negli anni, mentre rimettono in scena le sequenze dei loro film preferiti o cantano e ballano insieme. Purtroppo la scarsissima capacità di Moselle stessa rende il film non solo sghembo e ruspante come è giusto che sia, ed è anzi normale per un documento così artigianale, ma sciatto e malfatto in misura fastidiosa. La forza di The wolfpack è il suo non essere una storia drammatica di violenza e soprusi familiari: i lupi sono allegri, inseparabili, sicuramente strani, ma per tutto il film non si riesce veramente a compatirli. È una storia assurda, a suo modo drammatica, ma non è un documentario di disagio sociale e psicologico.

Perché vederlo. La storia è unica. I ragazzi sono stupendi, e il film riesce a non adagiarsi comodo nel documento verista del padre egomaniaco e autoritario, come ci si potrebbe aspettare. Anzi, la figura di Oscar è tutto tranne che centrale. Si ride un sacco, si percepisce pur nel disagio una simpatia nei confronti dei lupi che è davvero contagiosa. E poi ci sono alcune cose che fanno, alcune scene, che verrebbe voglia di avere fatto con i propri migliori amici o i propri fratelli con questa freschezza, questi sorrisi, questa felicità quasi inspiegabile.

Perché non vederlo. Perché è impossibile trovare nella storia del cinema distribuito nelle sale una serie di immagini più brutte. Il film è spesso girato in interni angusti e bui, e la regista-operatrice lascia l’autofocus acceso. Il risultato è che in moltissime inquadrature il soggetto è sfocato e la parete di fondo è perfettamente nitida, ma soprattutto l’autofocus si muove cercando di trovare una soluzione al problema. Oppure le persone sono riprese dall’alto o dal basso perché uno è alto e l’altro è seduto, in totale spregio della grammatica delle immagini. Non è per una forma di puntiglio tecnico che questi difetti infastidiscono: rovinano il film perché è difficile perdersi nella storia (peraltro così bella) quando i problemi tecnici continuano a ricordarti che c’è una telecamera che riprende (male) quello che vedi.

Una battuta. Oh oh oh oho ohoh ooooh ohohoh! (sulla melodia di Tarzan boy di Baltimora)

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