10 novembre 2015 17:55

Cos’è. La tomba delle lucciole di Akiyuki Nosaka è un racconto semi-autobiografico che racconta di bambini durante la seconda guerra mondiale: questo è il film che ne ha tratto nel 1988 Isao Takahata, il regista di Heidi e di La storia della principessa splendente. Takahata ha fondato insieme a Hayao Miyazaki il più celebre studio di produzione di film di animazione giapponesi, lo Studio Ghibli.

Ambientato nell’estate del 1945 sotto una pioggia di bombardamenti, la pellicola racconta il rapporto tra un fratello adolescente e la sorellina. Mentre la guerra distrugge le famiglie, sfalda l’idea di Giappone che i cittadini avevano imparato, polverizza le certezze e sfarina i rapporti, i due cercano di costruire un nuovo nucleo di umanità in una grotta vicina a un laghetto, dove sembra che piante e animali non siano al corrente dell’orrore circostante. La tomba delle lucciole, uscito negli anni novanta in home video, è nelle sale cinematografiche solo il 10 e l’11 novembre con un nuovo adattamento italiano. Successivamente sarà disponibile in dvd e blu-ray.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Com’è. Spesso nei film dello Studio Ghibli l’atmosfera predominante è quella del sogno, della fiaba, di mondi allegorici che rimandano al reale (a volte portandosi dietro un pensiero eco-pacifista, tipico di Miyazaki). Questo film non ha niente a che fare con tutto questo, e nemmeno ricorda La storia della principessa splendente, candidato come miglior film straniero all’ultima edizione degli Oscar e diretto dallo stesso Takahata. La tomba delle lucciole è un film realistico, crudo, dove l’unica concessione alla fiaba e all’immaginazione è rappresentata dal modo in cui la bambina Setsuko sente la guerra, ne soffre gli effetti, ma non è in grado di capirla per quello che è. Non c’è una bolla di racconto con il contesto bellico sullo sfondo. Al contrario la guerra è ovunque, e quella di Seito e Setsuka è la storia del tentativo di trovare un angolo minuscolo dove rimanere umani.

Perché vederlo. Tutti abbiamo visto decine di film di guerra: è uno dei generi storicamente più frequentati. Non è ovviamente nel loro messaggio che vanno valutati questi film, ma nella sfaccettatura che decidono di dare all’argomento, nel modo in cui lo rendono vivo e pulsante. La guerra è anche un tema facile, se vogliamo: violenza, paura, solitudine, amore, morte, avventura, disperazione e rinascita sono temi naturalmente presenti nel contesto bellico, mentre altrove sono impensabili. Non solo, ma il film di guerra ha anche il pregio di parlare di qualcosa che ha toccato tutte le famiglie, quindi in qualche misura le vite di ogni spettatore.

Takahata non sovraccarica esteticamente il suo film, ma anzi lo rende asciutto come una pellicola di Ozu. La vita quotidiana di due orfani nella Kōbe del 1945 passa per il cibo, i vestiti, la fame, la sete, la voglia di comprarsi un fornello o delle caramelle. La familiarità di un pranzo è attraversata dalla morte, dal dolore e dalla perdita con una naturalezza cui non siamo abituati. Il filtro estetico, l’interpretazione artistica della vicenda sono quasi inesistenti. Le scene non hanno l’efficacia documentale di una fotografia o quella realistica di una ricostruzione al cinema, ma proprio per questo in alcuni casi (il primo bombardamento, l’ospedale da campo, il rogo) colpiscono anche di più, e in modo sottile, normale, duraturo.

Perché non vederlo. È un film molto triste, per quanto bellissimo. A tratti è decisamente crudo. Inoltre per una parte del pubblico, non abituata a questo linguaggio, un racconto storico così forte in forma animata può risultare un po’ estraneo.

Una battuta. È riso bianco!

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it