18 gennaio 2016 15:05

Cos’è. Revenant. Redivivo è il film di Alejandro Iñárritu che molto probabilmente regalerà il primo oscar a Leonardo DiCaprio. Racconta il calvario di una spedizione di cacciatori di pelli nel nord degli Stati Uniti nell’inverno del 1823. Braccata e decimata dagli indiani, la spedizione si avvia verso il proprio fortino quando la guida del gruppo, Hugh Glass (DiCaprio), un uomo bianco che ha sposato una donna nativa e ha con sé il loro figlio adolescente, viene attaccato da un orso e ridotto in fin di vita. Il capitano della compagnia Andrew Henry (Domhnall Gleeson) affida l’assistenza del moribondo allo spietato e determinatissimo John Fitzgerald (Tom Hardy). Il film racconta il tentativo di Glass di sopravvivere e tornare alla base. La fotografia è del fuoriclasse Emmanuel Lubezki, mentre le musiche sono di Alva Noto e Ryūichi Sakamoto. Esiste già un film che racconta questa vicenda: Uomo bianco va’ col tuo Dio (Man in the wilderness), 1971, regia di Richard Serafian con Richard Harris protagonista.

Revenant. Redivivo

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Com’è. Per prima cosa Revenant è un film spettacolare, vista la fotografia di Lubezki, l’uso quasi esclusivo della steadycam, le musiche avvolgenti di Sakamoto e Noto, le distese di neve, ghiaccio, foreste, montagne che il formato panoramico abbraccia. È un film spettacolare sia in un senso riflessivo, con il protagonista solo e immerso negli spazi a perdita d’occhio, sia grazie ad alcune scene d’azione molto funamboliche, soprattutto nella sequenza dell’attacco degli indiani. Iñárritu è un virtuoso della macchina da presa, e qui più che nel chiuso del teatro di Birdman questa sua caratteristica emerge pienamente.

È presto chiaro con chi si confronta Iñárritu nel raccontare una storia di uomini che conquistano la terra con la violenza, la sfidano e la posseggono, sia nel senso politico della distruzione dei popoli che la abitano, sia in quello titanico del desiderio di sottomettere gli elementi. I modelli sembrano sicuramente Aguirre, furore di dio di Herzog e il cinema di Terrence Malick, soprattutto Il nuovo mondo. Del primo ci sono il vapore che appanna l’immagine, la sensazione di fatica fisica dell’obiettivo, la brutalità di Tom Hardy vista come destino. Di Malick c’è un senso degli elementi così dettagliato da diventare quasi religioso, unito a una visione dei nativi come sacerdoti di questo culto.

Ma il film è pieno di molto altro, soprattutto di un certo desiderio politico di ricordare agli statunitensi la natura della loro nazione: il fatto che siano stati parte fondamentale del più grande genocidio che si ricordi, quello dei nativi americani, e che ancora oggi la loro missione civilizzatrice colpisca i popoli del mondo. Quando Hardy dice al giovane che lo accompagna: “Il signore è dalla nostra, ragazzo!”, sembra proprio riferirsi al “Gott mit uns” dei nazisti. I protagonisti del film sono commercianti organizzati come militari e parlano dei nativi come di selvaggi, definendo in una battuta se stessi come portatori di civiltà.

Il film è apertamente dalla parte della natura e dei nativi, tanto che il suo eroe e protagonista è un mezzo-nativo, un uomo che ha in sé la conoscenza della terra insegnatagli dai pawnee, la tribù cui apparteneva sua moglie, con cui ha vissuto. Hardy al contrario è cattivo in modo puro, senza tentennamenti o sfumature. Domhnall Gleeson è al solito impeccabile, e vive un’ambivalenza che lo pone a metà tra i due: rappresenta il tentativo fallimentare di incarnare con coscienza il ruolo del conquistatore.

Perché vederlo. Al di là di tutto il resto, questo è un film che riempie gli occhi. Lubezki e Iñárritu sono andati a cercare luoghi sperduti e splendidi tra Alberta, Montana e British Columbia per disegnare con luce naturale e formato panoramico un ambiente che incarna l’equilibrio perfetto tra meraviglia e pericolo. I piani sequenza più spettacolari del film saranno probabilmente studiati da aspiranti registi e operatori, perché mentre succedono è veramente complicato capire come siano possibili. Perfino la scena dell’attacco dell’orso, completamente costruito in digitale, lascia senza fiato per naturalezza e credibilità.

Leonardo DiCaprio dice poche decine di battute in tutto il film, e per gran parte del tempo grugnisce o geme, ma la sua recitazione è sostanzialmente giusta. La quantità di angherie che la storia gli infligge è impressionante, ma il personaggio non si scompone e regge fino alla fine. Il fatto che la Academy non abbia visto la sua maestria in The wolf of Wall street è scandaloso, ma tant’è: vincerà questa volta per un ruolo “da Oscar”, con quel moralismo atletico per cui i più meritevoli sono quelli che interpretano persone in difficoltà fisica o esistenziale.

Tom Hardy è un grande attore e il feticcio erotico di una bella fetta di pubblico, e qui interpreta il ruolo di bruto come si deve.

Perché non vederlo. Iñárritu è un regista ambizioso, convinto di quello che fa, sostanzialmente pieno di sé. Fin qui non ci sarebbe niente di strano. Ma è chiaro che ormai pensa di rappresentare una fonte di linfa vitale messicana nello stantio cinema yankee di Hollywood. Con Revenant torna a galla la sua pesantezza che il circo divertito di Birdman aveva nascosto. Ogni elemento del film è ribadito decine di volte, e questa retorica si accumula nel corso dei minuti.

Quasi tutte le inquadrature sono controluce, così che il sole con i suoi riflessi nell’obiettivo sia sempre alle spalle di DiCaprio, qualunque cosa succeda. I piani sequenza d’azione hanno sempre quel momento ginnico di troppo che li rende virtuosistici e non solo mozzafiato. Il protagonista come da titolo è morto e rinasce? La cosa succede almeno tre volte, tanto che dopo metà film questa sopravvivenza a tutto sembra una condanna. Poi c’è il tema dei nativi, visti come saggi e serafici secondo uno stereotipo talmente antiquato che ormai sembra fantasy. Ci sono perfino delle sequenze oniriche in cui la moglie defunta del protagonista gli appare volante e magica, e ricorda gli spot dei profumi.

Il film insomma spinge sempre e rilancia di continuo. Si aspetta che lo spettatore provi dolore fisico quando DiCaprio viene graffiato, strappato, colpito, soffocato, sbattuto, congelato o ustionato; che soffra quando i suoi cari subiscono violenza; che abbia paura quando i nemici lo inseguono, tirano le frecce, i tomahawk, sparano colpi di pistola e fucile; che apra gli occhi davanti a questa critica storico-politica da assemblea di istituto, ripensando al ruolo dell’occidente nel mondo; che percepisca il senso del sublime panteista, dell’appartenenza all’immenso naturale; che creda in un senso metafisico delle cose che gli indiani leggono meglio di lui; che affronti la morte dell’eroe e gioisca della sua resurrezione diverse volte; che abbia sempre presente la bravura straordinaria del regista. Il risultato è che nel corso delle due ore e mezza del film, stufi di essere strattonati da tutte le parti, ci si allontana gradatamente dal film e presto non ci si crede più.

Una battuta. Io non ho più paura di morire, ormai. Sono già morto.

P.s. Si sa che quello della localizzazione di un film in un’altra lingua è un lavoro difficile che vive di compromessi dolorosi. Però quando un mercenario spietato, nell’ottocento, dice di volersi cercare “un pezzo decente di terra” in Texas, è molto forte la sensazione che qualcuno abbia tradotto “a decent piece of land” nel modo più sciatto possibile.

Correzione, 18 gennaio 2016
Nella versione precedente c’era scritto che il film Uomo bianco va’ col tuo Dio era stato tratto da un romanzo.

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