04 agosto 2015 16:55

Solitamente sono scettico quando un’azienda di grande successo della Silicon valley viene presa a esempio di come lavoreremo tutti nel futuro. Certo, è possibile che il successo di Google sia legato ai corsi gratuiti di yoga, alle capsule per la siesta o alle “aree di conversazione progettate per sembrare dei vecchi vagoni della metropolitana”. Ma di sicuro è altrettanto possibile che si tratti di sfizi che può permettersi un’azienda ricca e che, al di là del fatto che favoriscano o meno i profitti, non vedremo tanto presto riproposti nei call center o negli uffici comunali.

L’ultima tendenza, tuttavia, potrebbe rivelarsi più interessante: sempre più aziende del ramo tecnologico stanno sperimentando settimane lavorative di quattro giorni. Come spiega Ryan Carson, cofondatore di Treehouse, una start-up che si occupa di apprendimento: “Invece di rimanere al lavoro fingendo di fare qualcosa, hai tutto il venerdì libero”.

La principale ragione per lavorare meno giorni, ovviamente, è che giova alle famiglie, all’amicizia, ai passatempi e allo spirito. Ma l’aspetto più interessante di questi esperimenti, confermato da alcune ricerche accademiche, è che sembra aiutare anche la produttività e la qualità del lavoro.

In parte ciò è dovuto al fatto che il “lavoro intellettuale” si basa molto sul riposo, oltre che sull’uso, del cervello. Spingere le persone oltre i loro limiti naturali non le rende solo inefficienti ma compromette anche il lavoro dei giorni successivi. In altri casi, i dipendenti non lavorano meno ore in totale, ma semplicemente le riorganizzano, passando da cinque giorni da otto ore a quattro giorni da dieci ore. Anche questo accorgimento genera un utile senso di disciplina: sapere di dover concentrare tutto in meno giorni sembra che migliori l’efficienza generale.

Pensiamo alla settimana lavorativa in termini che forse non hanno più alcuna utilità

Un’analoga filosofia del “meno è meglio” è alla base del recente libro di Josh Davis, Two awesome hours (Due fantastiche ore), che si apre rifiutando l’idea secondo cui vale la pena cercare di trarre profitto da ogni singolo momento della vita quotidiana. Se si vuole ottenere il massimo dalle macchine o dai computer, è quasi sempre meglio tenerli accesi il più lungo possibile. Ma i computer non si stancano, mentre gli esseri umani sì.

Davis propone, nei limiti consentiti dal lavoro di ciascuno, di impegnarsi al massimo per effettuare ogni giorno, in corrispondenza dei picchi di energia, due ore di lavoro senza distrazione, durante le quali probabilmente si porteranno a termine più cose importanti di quante se ne farebbero in due giorni interi a intensità ridotta.

La grande verità che nessuno dice è che pensiamo alla settimana lavorativa in termini che forse non hanno più alcuna utilità. Negli anni venti del novecento, il fine settimana di due giorni ha rappresentato una grande vittoria per i diritti dei lavoratori ma ciò non significa che cinque giorni di lavoro siano il numero giusto.

La stessa settimana da sette giorni è una creazione umana: al contrario dell’anno, del mese o del giorno, non ha nessuno stretto legame con la natura (la Francia rivoluzionaria aveva settimane da dieci giorni e l’Unione Sovietica ha provato a istituire delle “settimane di lavoro continuo” da cinque giorni, con i giorni di riposo scaglionati, in modo che le linee di produzione non dovessero mai fermarsi). Inoltre, misurare il lavoro in ore, un’eredità della rivoluzione industriale, ha poco senso per il lavoro intellettuale, a parte il fatto che è un calcolo facile da fare. Se vi è possibile, lavorate di meno: scoprirete che state facendo di più.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it