07 marzo 2017 12:06

Mi rendo conto che di questi tempi tutti hanno un disperato bisogno di buone notizie, ma l’entusiasmo con il quale è stato accolto il ritorno del Nokia 3310 (sapete tutti di che parlo: quel mattoncino di plastica con 12 tasti e uno schermo che non si rompeva che è stato l’icona di un’epoca) mi ha comunque sorpreso. In parte, senza dubbio, è stata una questione di nostalgia. Ma è stato anche perché il 3310 “funzionava”.

Oggi lo sentiamo dire così spesso, a proposito di qualche vecchio prodotto della tecnologia, che è facile dimenticare quanto sia insolito: perché mai dovrebbe esserci un mercato di gadget che non funzionano? Eppure in molti casi è così. Il riconoscimento delle impronte digitali della Apple non è che funzioni proprio bene. E neanche il correttore. Poche batterie degli smartphone “funzionano”, nel senso che durano tutto il giorno. E perché tolleriamo che gli iPhone non siano impermeabili?

Se usiamo il metro di valutazione più comune – quante cose ci permette di fare – la tecnologia di consumo diventa sempre più strabiliante. Ma se quel metro diventa l’affidabilità, sembra che stiamo tornando indietro.

Carta e vinile
Essendo digitale, il 3310 non trova posto nel nuovo libro di David Sax The revenge on the analog. Real things and why they matter (La vendetta dell’analogico). Ma l’affetto dimostrato nei suoi confronti riflette la tendenza di cui parla Sax. In tutti i settori, afferma e dimostra l’autore, i prodotti analogici stanno tornando o comunque si rifiutano caparbiamente di morire. I dischi in vinile sono di nuovo molto ricercati; i libri di carta sono tuttora molto più diffusi degli ebook; e sembra che ogni fondatore di startup intervistato da Sax avesse con sé un taccuino Moleskine.

L’analogico c’impone di prendere una decisione mentre il digitale continua ad allettarci con la promessa della scelta infinita

Più che essere una pura e semplice moda, questo dimostra quanto sono apprezzati gli oggetti che fanno meno cose. Diversamente da quando stiamo leggendo sul tablet, se abbiamo in mano un libro non siamo tentati di cliccare su qualcos’altro quando la storia si fa meno appassionante. Su un quaderno è più difficile riformulare una frase che su Word, perciò smettiamo di avere dubbi e continuiamo a scrivere. Le foto non digitali sono più difficili da ritoccare.

In poche parole, l’analogico ci impone di prendere una decisione – se leggere quel libro, scrivere quella frase, scattare quella foto – mentre il digitale continua ad allettarci con la promessa della perfezione e della scelta infinita. Quindi il problema non è che la Apple non ha ancora perfezionato il riconoscimento delle impronte digitali (o qualsiasi altra cosa), ma che la traiettoria che sta seguendo – quella verso un congegno che fa tutto perfettamente – ha un obiettivo irraggiungibile, e quindi è destinata a non soddisfarci mai.

Nel mondo dell’astrazione
Dietro tutto questo c’è il fatto che, anche se crediamo di vivere in una società “materialista”, in realtà, per usare le parole della sociologa Juliet Schor, “non siamo abbastanza materialisti”. Anzi, come scrive David Cain su raptitude.com: “Abbiamo standard di giudizio piuttosto bassi sugli oggetti fisici che otteniamo in cambio del nostro denaro, e sulla qualità delle esperienze sensoriali che ci offrono”.

Grazie a internet e alla pubblicità, che ci vende una promessa di felicità e successo piuttosto che gli oggetti stessi, viviamo sempre più nel mondo dell’astrazione. Gli oggetti in sé spesso non valgono nulla. Cain racconta che i suoi amici lo prendono in giro perché ha speso 50 sterline per comprare una cucitrice che funziona perfettamente, ma lui dice: “Godo ogni volta che la uso”. E non sarebbe bello poter dire, sul letto di morte, di aver addirittura assaporato ogni singola graffetta?

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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