31 ottobre 2012 15:16

Uri è morto a vent’anni, due settimane prima del suo ventunesimo compleanno. Ucciso da un missile nel giorno più sanguinoso dall’inizio della seconda guerra del Libano, nel 2006, un giorno prima del cessate il fuoco.

Un figlio, Uri, combatteva contro la morte in una guerra non scelta da lui. Qualche chilometro più al sud un padre, David, combatteva per la vita usando parole durissime contro il governo. Alla fine le parole hanno avuto la meglio e fu raggiunto un cessate il fuoco. Ma era troppo tardi per Uri, per David, per la famiglia Grossman e per altre 23 famiglie che in quel giorno persero l’unica creazione divina riservata all’uomo.

Pochi mesi dopo ho incontrato David Grossman a Cagliari, ospite in un festival di letteratura dedicato ai ragazzi. Con loro parlò solo di libri e non lasciò alcuno spazio al suo lutto personale, alla morte. Era una mattina di ottobre, tutto sembrava normale. Con la moglie Michal ho parlato di Roma, che conosceva bene e dove era diretta insieme alla famiglia, ospiti del presidente Giorgio Napolitano.

Consapevole della tendenza israeliana ad appropriarsi dei figli, delle gioie e dei dolori altrui, ho selezionato le parole con attenzione, senza cadere nei silenzi, a tratti preoccupata. Grossman mi disse che stava lavorando a un progetto letterario molto impegnativo, scusandosi di non avere il tempo da dedicare ad altro. Si trattava di

A un cerbiatto somiglia il mio amore, uscito due anni dopo, nel 2008.

Se in A un cerbiatto somiglia il mio amore (il cui titolo in ebraico è “Una donna fugge dalla notizia”), libro pieno di ombre, timori e silenzi, la cui stesura è durata quasi cinque anni, la madre protagonista rifugge dalla notizia della perdita di suo figlio, in Caduto fuori dal tempo la fuga viene sostituita da un cammino eroico, coinvolgente e inarrestabile attraverso il lutto, verso l’amore e la vita.

Una sera un uomo si alza improvvisamente da tavola durante la cena, si separa dalla moglie dopo aver taciuto per cinque anni di “quella sera” e si avvia “laggiù”, alla ricerca del figlio morto, del suo odore, anche di un suo singolo respiro.

Questo cammino circolare, mai diretto, travolge man mano una città intera fatta di madri e padri che da contenitori di vita si trasformano in corpi senz’anima. Una riparatrice di reti. Un ciabattino silenzioso che in bocca tiene ancora dieci chiodi per le dieci piccole dita di sua figlia che usava baciare. Un anziano insegnante che risolve problemi di matematica sui muri delle case. Un duca fuggito dal suo palazzo. Un uomo che annota le tragedie altrui.

Ciascuno ha una propria storia, ciascuno ha perso il dono più prezioso della vita. Un insieme di genitori in lutto alla ricerca delle parole giuste, in bilico tra illusioni e realtà, raccontati da uno scrittore metà uomo metà scrivania, paralizzato di fronte alla sua incapacità di ricreare nuovamente il figlio attraverso le parole. In uno stoico tentativo di trovare nuove parole, nasce una poesia moderata, frammentata e combattiva contro parole svanite di fronte al dolore.

Sono le voci dei padri e i silenzi delle madri, le uniche in grado di contenere vita e morte altrui.

Grossman ritiene di sentirsi fortunato per aver saputo trovare le parole in grado di esprimere il dolore, visto che gli scrittori non possono permettersi di restare senza parole. Per creare vita e dare forma alla propria storia con le sue parole, non con quelle altrui.

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