19 gennaio 2013 16:18

La campagna elettorale per le elezioni israeliane del 2013 entrerà probabilmente nella storia come la più noiosa degli ultimi decenni.

Ci vuole talento e un pizzico di creatività per togliere ogni tipo di interesse verso la politica in una realtà straordinaria come quella ordinaria di Israele. Eppure i politici (grandi e piccoli), ci sono riusciti.

I risultati sono ampiamente scontati ancor prima dell’inizio della campagna elettorale, di fatto priva di una vera possibilità di scelta e piena di una forte sensazione di déjà vu.

Pertanto né i dollari nascosti nelle calze di Bibi né la discesa in campo di Yair Lapid, giornalista, ex icona televisiva e oggi uno dei politici più affascinanti nel panorama politico israeliano, sono riusciti ad aggiungere interesse a questa logorante e noiosa campagna elettorale.

Quattro anni sono trascorsi dalle ultime elezioni e la star emergente dell’epoca, l’ormai ex ministro degli esteri Liberman, ora accusato di frode e abuso di ufficio, è nuovamente candidato in ticket con Netanyahu, solo che ora non suscita interesse in nessuno. L’unico pseudofenomeno che suscita una qualche curiosità è Naftali Bennett, giovane leader politico del nuovo partito nazionalista Habait hayehudi (il focolaio ebraico).

Bennett, che ha fatto una carriera impressionante sia nell’high-tech sia nell’esercito israeliano, espone idee radicali con un linguaggio carismatico, è stato il protagonista del programma televisivo cult/satirico Eretz nehederet (Un paese meraviglioso) e rappresenta un modello aggiornato e quindi moderato (anche se non privo di difetti) dei coloni.

Lo schieramento dei partiti religiosi con la destra israeliana (i sondaggi di Ha’aretz del 18 gennaio prevedono la sua vittoria con 62 seggi su 120) è l’incubo degli elettori del centrosinistra israeliano, già rappresentato in parte dal profetico libro Kfor del giovane e promettente scrittore israeliano Shimon Adaf, che descrive la Tel Aviv del 2510 come una città ultra ortodossa. Un libro di fantascienza in un paese in cui la realtà surreale supera anche se stessa.

Una sorta d’intolleranza collettiva della società israeliana è ben descritta dal giovane scrittore Nir Baram (Brave persone), che la dipinge come afflitta dalla “malattia di razzismo”. Baram a sua volta, in un recente articolo, invita a votare per un partito ebraico-arabo, l’unico a poter rispondere al fenomeno del razzismo nello stato di Israele.

E gli israeliani? Altro che la questione iraniana o il conflitto palestinese: molti di loro non ne possono più. “Mi sono rotto le scatole dei coloni che controllano metà del budget dello stato”, dice un giovane israeliano in un filmato che gira su YouTube con il titolo “Tra un attimo tutto salta in aria, andate a votare!”. “Mi sono rotto dagli ultraortodossi che non lavorano, voglio vedere loro arrivare alla fine del mese con il mio di stipendio. O meglio ancora, vediamo se lo stato mi paga solo perché mi metto a studiare filosofia”.

È solo una parte delle accuse rivolte a tutti: laici, religiosi, gente di periferia, gente della città, operai sacrificati dai politici, che a loro volta sacrificano il paese. “Ma più di ogni cosa mi sono rotto di tutti quanti vuoi, seduti di fronte alle bollette che non potete pagare, senza futuro e senza nulla da amare in questo paese. Andate a votare!”, conclude il filmato che in meno di ventiquattro ore ha avuto migliaia di condivisioni.

Sulla stessa onda che chiama al “risveglio nazionale” c’è il gruppo musicale Hadag nachash (il pesce serpente) che in una nuova canzone intitolata Partiti sotto accusa, esprime lo sdegno per i partiti israeliani.

Molto rumore, suoni e urla ma nessuna traccia di proposte concrete per questioni vitali come quella iraniana, o annose come l’eterno conflitto palestinese o quelle della vita di tutti i giorni.

Solo molto rumore. E nient’altro.

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