26 novembre 2014 18:11

New York mi rende sentimentale. Nel corso degli anni l’ho frequentata abbastanza da affezionarmici, ma mai abbastanza da farci l’abitudine: per me resta sempre il paese delle meraviglie. Ascolto Paddy McAloon che canta Strolling Fifth avenue / just to think, Sinatra’s been here too e vedo attraverso i suoi stessi occhiali rosa.

Quindi ci resto male quando scopro che tutti quanti, dagli addetti al check-in al personale di volo, danno per scontato che se oggi due donne decidono, come me e mia sorella, di passare un fine settimana a New York, vanno a fare shopping. È New York, è quasi Natale e, ehi!, siete donne: andrete per negozi, giusto?

No, per niente, e nonostante i nostri sorrisetti ci sentiamo anche leggermente offese da questa insinuazione, perché non siamo qui per comprare, ma per guardare. Per camminare e gironzolare, mangiare e bere, per farci incantare da tutto questo. O per starcene qui in pace, se preferite. Abbiamo ristoranti prenotati, biglietti comprati, escursioni programmate. Quattro giorni di itinerario non-stop da rispettare, e non vediamo l’ora di cominciare. Un po’ come l’uomo seduto accanto a me in aereo, che mentre ci prepariamo ad atterrare al Jfk infila una mano nella borsa, tira fuori un deodorante spray e se lo infila sotto la camicia per darsi una bella spruzzata sotto ogni ascella. È New York, dopo tutto. Essere pronti è il minimo.

Sono venuta qui per la prima volta in tournée negli anni ottanta. Ci sono vecchie foto di me giovane e entusiasta, in posa reverenziale davanti al Brill building, in cima all’Empire State building con la mia cresta bionda spazzata dal vento. Negli anni novanta io e Ben abbiamo provato a vivere qui per qualche tempo, in un appartamento sopra un negozio di scarpe ora fatiscente di Chambers street, dove qualche anno dopo è stato allestito uno dei centri di coordinamento dei soccorsi dell’11 settembre.

Sono passati tanti anni da quando ci vivevamo e la città è molto cambiata, ma l’ombra dell’11 settembre e di quello che ne è seguito aleggia ancora. Immagino che sia per effetto di quell’ombra che le misure di sicurezza sono così diffuse ovunque: la perquisizione delle borse all’Empire State building, la polizia su tutto il ponte di Brooklyn, la barca della guardia costiera con la mitragliatrice che scorta il traghetto per Staten Island.

La romantica che è in me ha sempre visto la città come un luogo di vitalità e di gioia, ma è difficile ignorare queste tracce di tristezza. Balzano agli occhi davanti alle due grandi piscine costruite sulle impronte delle torri gemelle, nel memoriale dell’11 settembre. Questa versione gigante delle cascate dei giardini giapponesi trasmette un senso di calma quasi zen. Eppure non posso fare a meno di vederle come due enormi lavelli che evocano lo sgradevole pensiero di vite umane risucchiate nello scarico. Può sembrare un’immagine irrispettosa, ma forse non è sbagliato provare un terribile senso di perdita e di spreco. Qui la gente è letteralmente scomparsa sotto i nostri piedi, dove ora defluisce l’acqua.

Dopo questo dispiacere, il resto del nostro soggiorno è pura gioia. Camminiamo per miglia, ci godiamo le bellezze e beviamo in piccoli caffè con un sottofondo di Feist e New Order, Spandau Ballet e Dolly Parton. Andiamo a un concerto in cui diversi artisti, tutti fantastici, interpretano le canzoni di Peggy Lee.

Alla fine, l’ultima sera, non badiamo a spese e ci concediamo un albergo con vista in centro. Alla reception ci dicono che il nostro agente di viaggio è uno dei “partner preferiti” dell’albergo: da quel momento in poi ci trattano come regine, ci promuovono a una suite al 49esimo piano e ci danno anche un buono da cento dollari da spendere al centro benessere. Da viaggiatrice navigata che non si fa impressionare, passo solo due ore a scattare foto della stanza, che è grande quanto un appartamento di medie dimensioni.

Perfino da quell’altezza e attraverso i doppi vetri si sentono i rumori della strada, i clacson delle auto e le sirene della polizia. Va avanti così, luci e rumori, per tutto il giorno e tutta la notte: uno spettacolo di suoni e immagini.

Quando rientro in albergo, più tardi, è calata una nebbia che ha quasi inghiottito la mia stanza. Sembra Gotham City, o Blade runner. È eccitante e spettrale, e non mi sono mai sentita più lontana da casa.

Se mai dovessi assumere un atteggiamento indifferente a proposito di New York, per favore sparatemi.

(Traduzione di Diana Corsini)

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