28 febbraio 2015 18:49
Un paziente dell’ospedale psichiatrico di Agrigento, 1991. (Massimo Siragusa, Contrasto)

Il 13 maggio non si è stabilito per legge che il disagio psichico non esiste più in Italia, ma si è stabilito che in Italia non si dovrà rispondere mai più al disagio psichico con l’internamento e con la segregazione. Il che non significa che basterà rispedire a casa le persone con la loro angoscia e la loro sofferenza. Franca Ongaro Basaglia, 19 settembre 1978

Con questa citazione John Foot apre l’ultimo capitolo del suo importante lavoro di ricerca La “Repubblica dei matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia. 1961-1978 (Feltrinelli 2014), capitolo dedicato alla legge 180, alla sua approvazione e alla successiva costruzione della sua memoria pubblica.

Una citazione che racchiude in sé quanto di problematico ma anche di immensamente rivoluzionario ha potuto lasciare l’esperienza di un uomo nella storia nella società italiana senza dimenticare tuttavia le critiche, le domande, le questioni ancora oggi in sospeso, a trentasette anni dal 1978.

Una citazione che a partire dalla persona che l’ha pronunciata, Franca Ongaro, mette in luce tuttavia un altro tema, centrale nel libro di Foot: Basaglia, da solo, non sarebbe riuscito a fare niente; e quella che racconta La “Repubblica dei matti” è la storia culturale di un movimento, non la storia di un singolo uomo.

Per questo la ricerca di Foot è complessa da raccontare, perché mai retorica, mai ammiccante, mai facilmente lineare.

Dunque procediamo attraverso concetti chiave.

Uno: Franco Basaglia, da solo, non avrebbe mai fatto niente.

Due: Franco Basaglia non amava i matti, odiava il manicomio.

Tre: la legge Basaglia non esiste e comunque dovrebbe chiamarsi legge Orsini.

Quattro: quindi Franco Basaglia è stato il più importante intellettuale della storia dell’Italia repubblicana.

Uno: Franco Basaglia, da solo, non avrebbe mai fatto niente

Gorizia 1961, Franco Basaglia e Franca Ongaro, sua moglie, si trasferiscono con i figli piccoli nella provincia friulana, perché Basaglia, il “filosofo”, come lo chiamano con un certo disprezzo all’università di Padova, è stato esiliato lì, mandato a dirigere il locale manicomio.

Scrive John Foot:

Dentro, dietro alla classica scenografia manicomiale delle mura, dei cancelli, delle reti, delle sbarre, delle pesanti porte serrate, Basaglia trovò più di 600 pazienti. Circa 150 stavano nell’ospedale a seguito degli accordi di pace del dopoguerra. Basaglia li considerava malati inamovibili, non dimissibili, per i quali è necessaria una soluzione interna, essendo privi della minima prospettiva oltre lo spazio ospedaliero. (…) La categoria dei ‘matti’ (che spesso si confondeva con quella degli ‘internati in manicomio’) era allora molto vasta, comprendendo – per esempio – le persone affette da sindrome di Down, gli alcolisti e gli epilettici. (…) Gorizia era, come tutti i manicomi italiani, un autentico lager.

La guerra fredda sullo sfondo e le tensioni decennali sulla linea del confine, lì dove gli esseri umani diventano in fretta – a secondo del nemico da combattere – matti.

Il manicomio così accoglie cittadini di nazionalità slovena (due terzi e di questi circa la metà non parla italiano), internati negli anni della fascistizzazione, ma anche fascisti finiti dentro dopo la guerra, ex partigiani comunisti, incappati nel ritorno all’ordine seguito al 1948.

C’è pure Carla reduce dal campo di concentramento di Auschwitz. Sembrerebbe una caricatura espressionista se non sapessimo che in realtà il manicomio, nel dopoguerra, è questo.

Intorno a Basaglia si raccoglie una squadra composta da psichiatri, intellettuali, infermieri. Eccola (gli anni sono quelli dell’arrivo e della partenza da Gorizia): Franco Basaglia: 1961-1969; Franca Ongaro: 1961-1969; Antonio Slavich: 1962-1969; Lucio Schittar: 1965-1969; Agostino Pirella: 1965-1971; Domenico Casagrande: 1965-1972; Leopoldo Tesi: 1962-1968, 1969; Giorgio Antonucci: 1969-1970; Maria Pia Bombonato: 1962-1966; Giovanni Jervis: 1966-1969; Letizia Comba Jervis: 1966-1969.

Grazie a questo gruppo di persone i reparti vengono aperti, vengono restituiti ai malati gli oggetti personali, viene dato loro il diritto di parola nelle
assemblee generali. Grazie a questo gruppo di persone la proposta di Gorizia raggiunge angoli remoti del paese, mettendo in relazione mondi fino a quel momento estranei: quello della psichiatria e quello degli amministratori locali. È invece proprio questa la necessaria cerniera di trasmissione verso il mondo esterno, poiché il rischio è di non farsi capire dalle città che gli ospedali li ospitano, come succederà, nei fatti, a Gorizia ignara, estranea, ostile fino alla fine a Basaglia e alla sua équipe (qui un’intervista a Domenico Casagrande).

Gli ospedali psichiatrici, i manicomi insomma, sono infatti di pertinenza delle province che per tutti gli anni cinquanta hanno faticato a trovare un ruolo politico autonomo: il centralismo del ventennio fascista è riproposto, nei fatti, dalla mancata attuazione della costituzione.

Ma con il 1961 e l’avvio dei primi governi di centrosinistra tutto comincia a cambiare. Quello che gli storici della psichiatria chiamano movimento per la deistituzionalizzazione (degli ospedali) in realtà è un repentino processo di istituzionalizzazione da parte degli enti locali che finalmente si fanno carico del problema.

Perugia 1964. Ilvano Rasimelli è eletto presidente dell’amministrazione provinciale. Tra i suoi primi atti c’è una visita al manicomio, due giorni dopo l’insediamento, accompagnato dal direttore dell’ospedale, Giulio Agostini.

Insoddisfatto dell’immagine ‘cosmetica’ della realtà che gli era stata proposta, Rasimelli ritornò il giorno dopo – alle 6 del mattino –, da solo, e suonò il campanello. Al capoinfermiere che non voleva lasciarlo entrare si limitò a dire di ‘informare Agostini’ della sua presenza. Come Tommasini a Parma, Rasimelli si trovò di fronte una visione infernale. In una stanzetta c’erano circa sessanta donne ‘urlanti e rotolandosi per terra talvolta tra le loro feci’. Decise di agire. A Perugia quello fu il primo ‘no’: molti altri l’avrebbero seguito a ruota.

Colorno, Parma, 1965. Mario Tommasini viene eletto presidente dell’amministrazione provinciale.

La prima volta che ho messo piede nel manicomio di Colorno, due giorni dopo la nomina, sono uscito e ho vomitato […]. Avevo visto un carnaio, malati nudi, donne con le vestaglie senza nemmeno la cintola, uomini seduti per terra, con la testa tra le mani, altri che camminavano strascicando, come se i piedi non volessero andare in nessuna direzione, vetri rotti, sporco dappertutto”. ‘Eravamo’, scriverà poi, ‘in un luogo dove la morte e la violenza erano all’ordine del giorno’.

Sono soltanto due esempi ma fra i più significativi di quello che vuole dimostrare John Foot con la sua ricerca: la rivoluzione basagliana è in realtà il frutto del convergere di azioni diverse, portate avanti con coraggio da uomini della generazione che ha visto la guerra e il fascismo, e che mette in pratica, a partire dagli anni sessanta, un’altra visione della società, della repubblica, dando corpo e sostanza al mandato costituzionale, entro una più ampia cornice, quella del
disgelo costituzionale, come messo in luce dagli studi di Alessandro Pizzorusso (poi ripresi, fra gli altri, da Stefano Rodotà nel suo Libertà e diritti in Italia). Non un movimento riformista, un movimento rivoluzionario.

Una storia che affonda le sue radici negli anni quaranta, germoglia negli anni sessanta, e prepara di fatto il sessantotto italiano che trova nel movimento per la chiusura dei manicomi un simbolo di cui si approprierà trasformandolo, nell’immaginario collettivo, in una “sua” battaglia, una battaglia degli anni settanta.

Questo perché dopo l’azione (“Se volete vedere una realtà dove si elabora un sapere pratico, andate a Gorizia”, disse Jean-Paul Sartre), quando i muri sono stati buttati giù, la contenzione abolita, i matti slegati e il manicomio, nei fatti, superato, è possibile cominciare a raccontare. E la parola, di questa rivoluzione, è certamente l’arma più forte.

Niente Basaglia, scrive John Foot, senza l’apporto di “intellettuali, scrittori, editori, cineasti, giornalisti, fotografi e artisti che dedicarono tempo e talento alla lotta per il cambiamento”: da Giulio Einaudi a Giulio Bollati, da Silvano Agosti a Marco Bellocchio a Giuliano Scabia, a Carla Cerati a Gianni Berengo Gardin. Ma soprattutto, inaspettatamente, niente Basaglia senza la televisione, la Rai, che fin dal 1967 comincia a occuparsi passo dopo passo delle vicende manicomiali di Gorizia e porta dieci milioni di persone, il 3 gennaio del 1969 a seguire con Sergio Zavoli, lo speciale di Tv 7, I giardini di Abele, che inizia così:

I malati di mente li troviamo sempre in fondo a un viale di periferia, forse perché la loro immagine non turbi la nostra esistenza. A Gorizia sono al limite estremo della città: un muro di cinta dell’ospedale segna un tratto di confine fra lo stato italiano e quello jugoslavo. Ho chiesto di conoscere questo manicomio perché della sua storia recente si sono occupati uomini di scienza e di cultura in ogni parte del mondo, e da noi rischia di essere conosciuto solo attraverso un fatto di cronaca.

Questo sulla tv pubblica, in prima serata, nel 1969.

Due: Franco Basaglia non amava i matti, odiava il manicomio

Esiste un’iconografia basagliana che lo ha disegnato come un santo laico, un moderno san Francesco che invece di parlare con gli uccelli parla con i matti.

In realtà quello che interessa al medico veneziano non è il malato, da accudire e proteggere, bensì l’essere umano, nel senso più radicale, esistenziale del termine. Per questo agisce sull’istituzione e non sulla malattia.

Basaglia arriva a Gorizia nel 1961, ma non è un santo, un folle, un visionario; è un uomo, invece, immerso nella migliore cultura del suo tempo, un intellettuale, in grado di unire riflessione pratica ad azione concreta. È stato in prigione durante il fascismo, conosce il lager, grazie alla testimonianza di Primo Levi, pubblicato con enorme ritardo nel 1958.

Alla sua esperienza danno forma culturale tre libri che escono proprio l’anno del suo arrivo a Gorizia: I dannati della terra di Frantz Fanon, la Storia della follia di Michel Foucault, e Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza di Erving Goffman, testi che segnano profondamente lo sguardo di chi si occupa di esclusione sociale e malattia mentale.

Certo Gorizia sembra l’ultimo posto al mondo dove mettere in pratica questa mole teorica e invece diventa la fucina di un esperimento assolutamente inedito e dalle conseguenze uniche nel mondo: la legge sulla chiusura dei manicomi italiana fu infatti la prima. Basaglia, scrive John Foot, odia in primo luogo il manicomio perché sa che dentro il lager non esiste terapia possibile, che nessun uomo, posto di fronte a condizioni inumane di vita può rispondere in alcun modo a alcun tipo di sollecitazione.

Decide così di mettere la “malattia tra parentesi”. Una delle frasi sulle quali più si è esercitata la critica pro e contro Franco Basaglia, perché cosa significa mettere la malattia fra parentesi? Disconoscerne l’esistenza attribuendo ogni forma di disagio psichico a una ragione sociale, oppure, semplicemente, ribadire che dentro il manicomio la cura non è possibile?

Su questo Foot interviene in modo approfondito, forse anche troppo per un libro che non vuole essere una storia della psichiatria (o dell’anti-psichiatria) italiana. Certo è che intorno a questo concetto, per quanto all’apparenza astratto, ruota tutta la successiva messa in discussione delle istituzioni a partire da un testo che diventerà un bibbia del movimento, ovvero L’istituzione negata. Scrive Basaglia:

Finché si resta all’interno del sistema, la nostra situazione non può che essere contraddittoria: l’istituzione è contemporaneamente negata e gestita, la malattia è messa tra parentesi e curata, l’atto terapeutico rifiutato e agito […] la nostra realtà è continuare a vivere le contraddizioni del sistema che ci determina, gestendo un’istituzione che neghiamo.

Gestendo un’istituzione che neghiamo. In questa contraddizione, che attraverserà tutti gli anni settanta, s’incarna il valore di un intervento profondamente politico che ridisegna, a partire da Gorizia, il senso di ogni intellettuale di fronte alla possibilità di riformare o abbattere lo spazio entro cui agisce: sia il manicomio, la scuola, o in ultima istanza, la famiglia.

Gestire un’istituzione che di fatto si nega implica infatti il suo necessario superamento. Nessuna riforma è possibile. Soltanto, semplicemente, la sua chiusura. E così sarà.

Oggi, in Italia, gli ex manicomi svolgono le funzioni più disparate. Alcuni sono vuoti e abbandonati. Altri sono diventati ‘musei della mente’. Altri sono ancora collegati ai servizi sanitari e psichiatrici. Alcuni sono diventati scuole, o università, altri sono alloggi. Quasi tutti hanno aperto al pubblico (in parte almeno) i loro magnifici parchi. Al ‘grande internamento’ descritto da Foucault seguì, negli anni settanta, una ‘grande liberazione’. La società assorbì la maggioranza dei 100.000 internati, in un processo imposto al sistema da un movimento che operava all’interno delle istituzioni stesse, un fatto del tutto unico nel mondo occidentale. I manicomi italiani furono chiusi da chi ci lavorava: gente che aboliva, e per sempre, il proprio impiego. Nessuno, oggi, occupa i posti che furono di Basaglia, Giacanelli, Pirella e Casagrande negli anni sessanta e settanta: nessuno, oggi in Italia, fa il direttore di un ospedale psichiatrico. Il movimento agiva contro i propri interessi immediati, andando nella direzione opposta del clientelismo e del nepotismo. Fu la negazione di se stesso.

Tre: la legge Basaglia non esiste e comunque dovrebbe chiamarsi legge Orsini

L’esperienza di Gorizia si chiude, di fatto, nel 1968, con quello che viene ricordato come “l’incidente”: un paziente in permesso giornaliero a casa uccide la moglie. Nella città friulana che non ha mai amato Basaglia, la stampa dà ampio spazio alla notizia scatenando una dura reazione di condanna generale.

In molti decidono da questo momento di andarsene, lo stesso Basaglia resterà ancora per poco. La diaspora dei triestini porterà l’immenso patrimonio umano a disseminarsi entro diverse realtà manicomiali, ma non solo; c’è chi partirà da qui per lavorare sull’esclusione sociale e la povertà nei paesi del sud del mondo come
Luciano Carrino.

Il resto della storia è noto, o almeno lo è abbastanza. Basaglia passa a dirigere il manicomio di Trieste che diventerà il fiore all’occhiello del movimento per la riforma degli ospedali psichiatrici; a Perugia, Arezzo, Reggio Emilia si passerà progressivamente a creare strutture territoriali per la malattia mentale, fuori dagli ospedali, dentro le comunità.

In questo senso sarà fondamentale l’apporto della legge Mariotti del 1968 che elimina il ricovero coatto, alla base dell’internamento manicomiale fin dal 1904 (
qui un approfondimento di Pompeo Martelli).

Nel gennaio del 1977 Franco Basaglia indice una conferenza stampa e annuncia che entro l’anno il manicomio di Trieste sarà chiuso. Ci vorrà più tempo è vero, e solo dal 1980 inizierà la fine delle accettazioni, ma certo è che senza lo shock di Trieste la legge del 1978 non sarebbe stata possibile.

La 180, è poco noto, fu una legge promulgata in fretta e furia, discussa solo nelle commissioni, mai arrivata in aula, come risposta al rischio dei referendum indetti dai radicali, che volevano l’immediata chiusura degli ospedali psichiatrici senza alcun dispositivo cuscinetto. Per questo Marco Pannella la accusò di essere inutile e strumentale. Anche Franco Basaglia la vide come un passo indietro rispetto alle esperienze già maturate sul campo a Trieste, Arezzo, Perugia.

Certo è, come scrive Foot, che la politica è davvero l’arte del possibile: nel 1978 fu possibile la 180.

Il relatore fu il democristiano Bruno Orsini, e la legge risultò la sintesi di: mediazioni politiche, una più generale revisione dei servizi sanitari e venti anni circa di battaglie e trasformazioni reali.

La legge 180 stabiliva che le persone affette da disturbi mentali sarebbero state assistite nei servizi decentrati ovvero, nei casi più gravi, in speciali unità inserite negli ospedali civili, con un massimo di quindici letti (per evitare in teoria la comparsa dei “piccoli manicomi” che tanto preoccupava gli ex goriziani).

Il trattamento era volontario, riprendendo e ampliando la legge del 1968. I malati di mente tornavano a essere persone con diritti, e soprattutto veniva fatto divieto di costruire nuovi ospedali psichiatrici.

Ma ci sarebbero voluti vent’anni per arrivare alla chiusura definitiva dei manicomi; su questo processo, racconta Foot, avrebbe vigilato Franca Ongaro dopo la morte di Basaglia nel 1980.

La legge 180 era fragile: in dicembre fu assorbita nelle riforme generali sulla sanità, abbassando il tono di alcuni provvedimenti originari. Come abbiamo visto, per esempio, la 180 limitava a quindici il numero dei letti, la nuova legge (la 883) non poneva limiti. Ma, scrive Foot, “la rivoluzione non finì con la chiusura del manicomio. Per molti versi fu solo l’inizio”. Un inizio con arresti continui.

L’8 novembre del 1982 Cronaca, trasmissione del secondo canale Rai, manda in onda il servizio I fantasmi del manicomio che si apre con l’abbattimento del muro costruito fra un istituto tecnico e l’ex manicomio di Arezzo. Anche un muro può abbattere la 180, commenta, giustamente, il giornalista.

Di muri negli anni a venire ne vengono ricostruiti centinaia, muri spesso intangibili, ma spessi e impossibili da abbattere, fino a recentissimi tempi.

Per esempio, dopo il terremoto dell’Aquila, la protezione civile decide di “costruire una tendopoli dedicata ai servizi psichiatrici e ai loro pazienti, e solo a loro, ben distante dalla città”. Di questo episodio, solo in apparenza marginale, parla Filippo Tantillo in una video-ricerca dal titolo Le comunità possibili:

La preoccupazione della protezione civile era, in qualche maniera, che la presenza dei ‘matti’ in mezzo ai comuni cittadini potesse creare problemi nella gestione dell’emergenza. Il responsabile del servizio, Vittorio Sconci, dopo essersi consultato con i suoi collaboratori, aveva risposto che non se ne parlava, che in Italia la salute mentale, per legge, non si persegue rinchiudendo o isolando i pazienti in strutture apposite, ma favorendone il reinserimento nella comunità; quindi anche i matti avrebbero dovuto essere accolti nelle tendopoli, come tutti.

È un episodio, fra i moltissimi, che però raccontano le difficoltà culturali, più che materiali, dell’attuazione della legge anche a trenta e passa anni di distanza.

Certo le critiche radicali e anche motivate non sono mancate; non ultima, citata dallo stesso Foot, quella di Roy Porter che scrive in Madness. A brief history, che la legge Basaglia fu seguita da un caos normativo.

Ma se effettivamente ancora molti problemi restano aperti – come quello gravissimo degli opg (ospedali psichiatrici giudiziari) raccontato recentemente da Francesco Cordio nel suo film Lo stato della follia – non si può non riconoscere che ancora oggi Trieste è all’avanguardia nel mondo per i servizi psichiatrici al punto che équipe di medici e professionisti triestini sono chiamati a gestire la chiusura di manicomi in situazioni spaventose come nel caso di Leros, in Grecia, isola dove vivevano tremila pazienti. Scrive Foot:

Alcune realtà sarebbero diventate modelli studiati in tutto il mondo (alcune lo erano già negli anni sessanta e settanta), ma il paese avrebbe continuato a presentare anche alcuni degli esempi di assistenza peggiori e più arretrati d’Europa. Si arrivò a un sistema a due velocità: isole di eccellenza che convivevano con realtà dove poco o nulla era cambiato. Nel sistema psichiatrico italiano coesistevano il futuro, il presente e il passato. Nel frattempo, il dibattito sulle leggi 180 e 833 e le loro conseguenze infuriò per anni, dividendo gli psichiatri, le famiglie, gli attivisti, gli amministratori e i pazienti. L’etichetta ‘legge Basaglia’ non aveva soltanto un significato positivo: venne usata anche per imputare al movimento basagliano tutta una serie di problemi, con molti dei quali in verità non aveva avuto nulla a che fare.

Quattro: quindi Franco Basaglia è stato il più importante intellettuale della storia dell’Italia repubblicana

Mitizzare non aiuta, alimenta i discorsi di chi nega che dopo il 1978 sia successo qualcosa. In questo senso Foot cita Franco Rotelli, collaboratore di Basaglia a Trieste, oggi consigliere regionale che appunto dice di essere stanco di “ridurre” la storia dell’esperienza riuscita di Trieste alla storia di Marco Cavallo: il momento “insuperabile” in realtà è stato superato dai fatti, la chiusura del manicomio, l’apertura degli spazi, il “portare dentro quello che prima era fuori, e fuori quello che era dentro”.

Fa bene John Foot a soffermarsi sulle memorie possessive che hanno agito nella costruzione pubblica della memoria di questa storia. Memoria possessiva ovvero prodotta dagli stessi protagonisti della vicenda così come è stato per il sessantotto o il femminismo o altri fenomeni di grande mobilitazione sociale e culturale.

In molti casi oggi il punto sembra essere soltanto quello di difendere ciò che è stato fatto in passato, idealizzandolo per eliminare ogni contraddizione, mentre in realtà bisognerebbe raccontarlo, senza aver paura di storicizzare, di contestualizzare. Andare a tirar fuori le voci, i volti, i documenti è senza dubbio il modo migliore per riconoscere il valore della rivoluzione di Franco Basaglia che – per l’ampiezza delle conseguenze del suo agire, per la ricaduta pubblica e istituzionale del suo pensiero, e per il fatto che la legge sulla chiusura dei manicomi è stata la prima di questo tipo al mondo – è senza dubbio, il più grande intellettuale italiano del dopoguerra.

Ma La “Repubblica dei matti” non è un saggio programmatico, né una rilettura critica dei testi dei goriziani, L’istituzione negata in testa; e non è nemmeno un testo militante su o contro Basaglia, ma è una ricerca storiografica. Anzi, una bellissima ricerca storiografica, e per questo è giusto che chiuda lì dove chiude, ovvero alla legge Orsini del 1978. Mancano dunque gli anni a venire, e manca il sud, l’esperienza di Sergio Piro, e forse manca anche uno sguardo ancora più largo al contesto.

Il lavoro di John Foot è stato reso possibile dal riordino e dall’archiviazione delle
carte psichiatriche, e per merito di istituzioni che da anni lavorano sulla memoria pubblica del manicomio come il Museo della mente di Roma, allestito da Studio Azzurro, ospitato negli spazi che furono un tempo sede del manicomio a Santa Maria della Pietà. Forse uno dei musei più belli di Roma, poco conosciuto, troppo spesso vuoto.

La “Repubblica dei matti” racconta una storia di diritti, di cultura, di persone, di passioni, ed è la sintesi perfetta di quell’epoca dell’azione collettiva che ha lasciato più di ogni altra dei diritti di cui continuiamo ogni giorno a godere: quando accompagniamo i nostri figli disabili in scuole dove non esistono più classi differenziali, quando abortiamo, senza che nessuno ci chieda perché, quando vediamo riconosciuto il nostro diritto di uomini e donne a essere uguali come genitori e coniugi dentro la famiglia.

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