22 maggio 2015 17:08

In questi giorni, a chi detiene il potere politico, economico e accademico bolognese non sembra vero di avere trovato un nemico pubblico su cui fare convergere l’odio della cittadinanza. A dispetto dell’età anagrafica è un nemico vecchio, cioè sempre il solito: lo studente fuori sede, l’alternativo, l’anarco-autonomo-rompipalle. È almeno dal 1977 che il copione è sempre lo stesso, si susseguono le generazioni, ma non cambia niente.

Una protesta a Bologna, il 5 maggio, contro la riforma della scuola proposta dal governo di Matteo Renzi. (Massimiliano Donati, Demotix/Corbis)

Non è mica un caso se da anni la città langue in una palude politica dove ogni dibattito si fissa sul livello più basso. I collettivi universitari fanno casino e giù tutti a pestarli: dal questore ai vertici dell’ateneo, dal sindaco al segretario del Partito democratico, con i giornali a fare da grancassa a ogni calcio e sputo: - Dagli al figlio-di-papà-ingrato!

Il casus belli è stato il divieto di dimora che ha raggiunto due attivisti di un collettivo universitario e successivamente gli arresti domiciliari per altri cinque.

Gli arrestati e gli espulsi sono accusati di reati connessi alla contestazione a una ministra del governo, avvenuta alla fine dell’anno scorso, pratica che di questi tempi è tutt’altro che un’esclusiva di facinorosi.

Sarà il caso di ricordare che poche settimane fa alla festa de l’Unità di Bologna i fischi per Matteo Renzi e Stefania Giannini sono partiti in primo luogo dagli insegnanti, mentre ai collettivi studenteschi veniva impedito l’accesso a suon di manganello.

Pochi giorni dopo gli arresti domiciliari, l’autorità giudiziaria ha messo sotto sequestro l’aula C della facoltà di Scienze politiche, storicamente gestita da un altro collettivo studentesco, il quale ha reagito organizzando una festa con strascico di scritte sui muri e statue imbrattate.

Sgomberare un’aula universitaria autogestita da un quarto di secolo è evidentemente una scelta politica prima che giudiziaria (in certi paesi un’esperienza del genere non costituirebbe reato).

E se la risposta degli ex occupanti è un party che lascia traccia sui muri, il pestaggio giornalistico è garantito, a prescindere dal fatto che con una mano di bianco si è già risolto tutto. Sì, perché quello contro le scritte sui muri è uno dei refrain più in voga nel vuoto politico bolognese. Dunque niente di meglio che trovare le scritte addirittura all’interno di una sede universitaria per additare i writers all’odio pubblico.

Con grande sprezzo del ridicolo e ben poco senso delle proporzioni qualcuno si spinge a paragonare gli imbrattatori ai miliziani del gruppo Stato islamico. E non è una persona a caso, ma uno dei cittadini più potenti di Bologna, l’ex rettore Roversi Monaco, che attualmente colleziona cinque o sei presidenze, tra cui quella della Fondazione Carisbo.

Qui veniamo al punto. Indipendentemente da come la si pensi su writers, squatters, contestatori, e rompiscatole vari, si tratta di riuscire ancora a distinguere i deboli dai forti. Da una parte c’è qualche decina di studenti, dall’altra tutti a dargli addosso. Da una parte i “violenti” che vengono individuati come nemico pubblico per avere fatto zizza con le forze dell’ordine, imbrattato i muri o la porta dell’ufficio di un barone universitario, e dall’altra i mass media, i partiti di governo, gli stessi baroni, i potenti locali. Da una parte uno studente fuorisede con la testa manganellata o la bomboletta spray in mano, dall’altra gli esponenti locali del principale partito di governo, il cui Lider Maximo guida un esecutivo che nessuno ha votato e sta giusto varando la controriforma scolastica più reazionaria della storia repubblicana, dopo avere già assestato un colpo letale al mondo del lavoro con il Jobs act e alla rappresentanza con l’Italicum.

A esporsi per far notare la sproporzione dei provvedimenti giudiziari contro i collettivi è il solito gruppo di intellettuali, qualche docente universitario, ma soprattutto scrittori sollecitati dalla campagna #Libertàdidimora.

Apriti cielo. Il livello della discussione è ormai talmente basso che l’esercizio del pensiero critico viene preso per giustificazione o adesione alle pratiche dei collettivi stessi, ancora in una grottesca parodia di altri tempi e di ben più imponenti cicli di lotta. Immancabile l’appellativo di “cattivi maestri”. Cattivi, sì, cattivissimi… e con il latte alle ginocchia.

La figura più ridicola se la riservano sempre i politici locali del Partito democratico. Era già capitato in occasione del nostro schierarci per il referendum cittadino sui finanziamenti comunali alle scuole materne paritarie private. Allora era stato il segretario provinciale (o così ci pare di ricordare) a mettere le mani avanti, dichiarandosi un nostro lettore, ma in disaccordo con noi…

Oggi una parte analoga tocca al segretario cittadino, il quale tiene a precisare che nutre “rispetto e ammirazione” per gli scrittori che si sono espressi contro i provvedimenti giudiziari cautelari, ma che si dissocia da loro.

Ecco, lungi da noi il voler replicare per tutti, ci limitiamo a dire che per quanto ci riguarda tale rispetto e ammirazione non sono affatto ricambiati. Se non altro perché del soggetto in questione ricordiamo bene l’intervento in un consiglio comunale di due anni fa, nel quale invitava la giunta a ignorare l’esito del referendum clamorosamente perso dal suo partito. Tra una scritta sul muro e uno schiaffo alla volontà espressa dalla cittadinanza, non abbiamo dubbi su cosa produca il danno più grave.

E poi, in tutta sincerità, siamo convinti che tra questi politici locali impegnati a far carriera nel Partito della Nazione, di lettori se ne trovino ben pochi. E chissà che questo non sia parte del problema.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it