05 luglio 2015 14:38

Questa è una storia piccola, fatta d’idee e materiali di recupero. È la storia di un lampione comunitario, che dal 2010 si sposta su una ruota di bicicletta e dà luce a una ventina di villaggi della provincia di Ségou, nel cuore del Mali, in Africa occidentale. Ma è anche la storia di un incontro: quello fra Matteo Ferroni, giovane architetto di Perugia, e la gente del comune di Cinzanà, il più grande insediamento rurale (72 villaggi) del paese.

È un pomeriggio di metà giugno, a Milano. Matteo pare un po’ a disagio nella camicia curata, la giacca, i pantaloni stirati e un paio di mocassini scuri. Ci incontriamo di fronte al Politecnico, sono quasi tre mesi che non ci vediamo. È a Milano per presentare, nell’ambito di Expo, il progetto “Foroba Yelen” (“luce comunitaria” in bambarà, la lingua più diffusa del Mali) al Museo della scienza e della tecnica. L’ultima volta che ci siamo visti eravamo in Africa. Lui era venuto con gli stessi mocassini ai piedi a costruire e a consegnare alcuni lampioni, io invece avevo colto l’occasione di viaggiare con lui e con il videomaker Flavio Signore per vedere la sua utopia realizzata.

Sono diventato amico di Matteo Ferroni quando, sei mesi prima, sempre a Milano, mi disse: “In realtà portando la luce volevo anche proteggere l’oscurità”. Dietro questa affermazione si cela il cuore di questa storia: l’attenzione e la cura di chi è curioso verso un mondo che vuole aiutare ma che nello stesso tempo non smette di stupirlo e insegnarli qualcosa. Ogni particolare nell’ideazione, progettazione, scelta dei materiali, lavorazione, distribuzione e gestione del lampione, è frutto dell’osservazione di Matteo della vita rurale.

L’architetto-antropologo ha vissuto mesi immerso nella realtà e nell’oscurità profonda dei villaggi maliani, traendo preziosi spunti per realizzare la propria idea. Un esempio su tutti: le misure del rettangolo di luce prodotto dal lampione ricalcano quelle dell’ombra degli alberi sotto cui si raggruppano durante il giorno gli abitanti dei villaggi. Ecco dunque che l’ombra dell’albero, “spazio di vita del gruppo, quindi spazio sociale”, di notte si trasforma in luce e, sorprendentemente secondo Matteo, “tutti decidono di rimanere nel buio. Entra nella bolla di luce solo chi deve svolgere un’attività, mentre gli altri preferiscono starne fuori”.

Il video di Flavio Signore e Andrea de Georgio


Altra fonte d’ispirazione durante i suoi soggiorni in Africa è stato il libro Campi, fabbriche e officine (1898) di Pëtr Kropotkin, filosofo naturalista russo vissuto a cavallo fra l’otto e il novecento. Le suggestioni riguardo alle comunità rurali dell’Inghilterra del 1600, fra cui la celebre teoria del“mutuo soccorso” che ha reso Kropotkin uno dei padri dell’anarchismo, a Matteo sembravano descrivere fedelmente le comunità di cui era ospite quando leggeva quelle pagine alla luce di una lampada a olio. L’idea che l’autarchia energetica possa creare i presupposti per l’autorganizzazione delle comunità rurali aggirando l’aiuto (e l’autorità) dello stato si è fatta strada nella sua mente, e ha così inventato una luce collettiva per una regione sperduta dove le continue promesse elettorali d’illuminazione pubblica e quelle assistenzialistiche dei progetti di cooperazione non sono state mantenute.

“A me piace chiamarla esperienza. È diventata un progetto quando un giorno il sindaco del comune è venuto a dirmi che c’erano altri sessanta villaggi che desideravano avere lampade simili. Mi ha chiesto se si trattava di un oggetto singolo o di un progetto. Non avevo mai pensato che potesse diventare qualcosa del genere, prima”. In cinque anni di attività – più volte interrotta e poi ripresa a causa del conflitto che è scoppiato in Mali nel 2013 – Matteo ha costruito un centinaio di lampade, rifornendo una ventina di villaggi (quattro per ognuno) e formando artigiani locali che ora possono riparare e riprodurre il lampione.

Quando non riesce a spiegarsi in francese, tira fuori quaderno e tratto pen e scarabocchia forme stilizzate sui fogli

La fabbricazione avviene a Ségou, capoluogo della regione, o nelle cittadine più vicine ai villaggi. Si parte dal telaio di una vecchia bicicletta – “un oggetto perfetto, per questo così diffuso nel mondo”, spiega Matteo – a cui vengono aggiunti tubi idraulici, cavi del telefono, una batteria di moto ricaricata con i pannelli solari e una testa di alluminio dentro cui viene inserito il modulo-led, unico componente importato dall’Italia insieme allo stampo di plastica della testa. “In Africa si cominciano a trovare dei led cinesi, ma sono ancora di scarsa qualità. Presto non dovrò più portare nemmeno quelli”.

Matteo va dal ciclista, dal fabbro, dal riparatore di radio e tv, dal fonditore di teiere d’alluminio. Resta ammirato osservando le mani degli artigiani forgiare la materia e, riadattando le sue indicazioni alla propria maniera di lavorare, partorire una nuova lampada. Quando non riesce a spiegarsi in francese, tira fuori quaderno e tratto pen e scarabocchia forme stilizzate sui fogli. Un meccanico gli regala una molla e lui quasi si commuove.

In quel gesto si trova tutto il senso della sua idea: una comunità che comprende il valore di una tecnologia pulita che si fonde con il panorama quotidiano, realizzata grazie al dono e alla condivisione di conoscenze artigiane al servizio di tutti. Come quella volta che, tornato in un villaggio dopo mesi di assenza, gli hanno fatto trovare decine di carcasse di bici ammassate nel retro della moschea. Un approccio ben diverso dagli interventi di cooperazione internazionale, troppo spesso calati dall’alto prescindendo dalla conoscenza della realtà locale e dall’impatto che questi programmi di “sviluppo” hanno sulle culture e sulle popolazioni interessate.

Il lampione nell’orto comunitario. ( Matteo Ferroni, Fondazione Foroba Yelen)

I lampioni sono custoditi e gestiti da un comitato di donne che li concedono in affitto per la somma simbolica di 20-30 centesimi di euro a notte per lampada. I ricavati finiscono in una cassa comune per le riparazioni e per le ricorrenze speciali. Così, gironzolando di notte fra le capanne, le moschee e gli spiazzi dei villaggi che dispongono dei lampioni, ci si può imbattere in una sessione di studio collettivo (prima gli alunni per ripetere la sera dovevano camminare alcuni chilometri e mettersi sotto le luci della strada) o in una danza sacra delle maschere scimmiottata da un gruppo di bambini. O anche in una visita di un curatore tradizionale, in una festa di matrimonio, in un funerale (prima non era possibile celebrarli dopo il tramonto), in una vendita straordinaria di carne o in un gruppo di donne che annaffia l’insalata nell’orto comune. Prima dell’arrivo delle lampade di Matteo, nei villaggi la notte era scandita dai cicli lunari. Ora una vasta gamma di attività possono essere svolte anche di sera, quando la brezza notturna concede una gradevole tregua dal caldo.

Come ogni giorno, al tramonto il sole africano pare avere fretta di andare a coricarsi. La sera scende inesorabile sulle capanne di terra e fango del comune di Cinzanà ripiombando la piana in un’improvvisa oscurità. Altrettanto velocemente s’accendono ovunque fuochi e torce a pile, allungando ombre sulle pareti delle case. Un giovane aiuta il capo villaggio ad azionare e alzare il lampione che stasera illuminerà la nostra cena: un enorme piatto di pasta al pomodoro scotta con pezzi del pollo che stamattina ci gironzolava fra i piedi. Un modo gentile per esprimere all’italiano Matteo tutta la gratitudine per aver portato la luce senza essersi dimenticato di proteggere il loro buio.

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