24 settembre 2013 13:00

Gabriele Del Grande è stato ad Aleppo, in Siria, tra il 3 e il 13 settembre 2013. Ha viaggiato solo con civili siriani, senza appoggiarsi né all’esercito né ai ribelli. Ha scritto un diario in quattro puntate. Questa è la seconda puntata.

Quando Nour, un ragazzo di quattordici anni, si è presentato a mezzanotte con in mano un vestito bianco da sposa, non ho capito bene cosa avesse in mente. All’inizio ho pensato a uno scherzo. Poi però, quando ha cominciato a tagliarlo a strisce con un coltellaccio da cucina, mi sono ricordato che quelle bende bianche ricamate le avevo già viste oggi strette sulla fronte dei ragazzi delle brigate del quartiere Ashrafiya. Il bianco è un segnale di riconoscimento. Anche i medici dell’ospedale clandestino me l’avevano detto: senza la fascia bianca, non muovetevi di qui. Così abbiamo stretto il nodo dietro la testa e ci siamo tuffati nel buio della notte per tornare a casa, dopo aver passato tutta la giornata bloccati in un appartamento sul fronte, sotto il fuoco incessante dell’artiglieria del regime.

Gabriele Del Grande al centro. (Gabriele Del Grande)

Attraversare una città nel buio più totale è una strana sensazione. In cielo ho subito riconosciuto il Toro, poi le Pleiadi. Poi un’esplosione pazzesca nella strada a fianco, la vampata di luce, un cancello da scavalcare, un altro, il fiato corto, un giardino, il rombo dei motori di un aereo militare, le luci rosse dell’antiaerea, una macchina che corre a fari spenti, e quindi una raffica di colpi. L’ennesima. Stavolta però sono colpi delle brigate dell’Esercito siriano libero (Esl), che dal nostro quartiere rispondono al fuoco nemico.

Peccato che anche nelle aree lealiste di Aleppo abitino dei civili. La maggior parte dei quali non ha altro partito che quello della pace. E anche dall’altra parte del fronte cadono vittime innocenti sotto il fuoco dei rivoluzionari. Oggi è toccato a una famiglia di quattro persone, uccise da una bomba dell’Esl caduta nel quartiere da dove ci stavano bombardando. Vittime innocenti tanto quanto il quarantenne freddato sotto casa nostra questa mattina da un colpo alla testa sparato da un cecchino del regime.

Storie di ordinaria violenza, che ad Aleppo non fanno nemmeno rumore. La morte è diventata quanto di più banale possa accadere. Talmente banale che oggi Abu Moqtad mi chiedeva perché ci tenessi tanto a raccontarla. “Il mondo non si è mosso per centomila morti, non si è mosso per due milioni di rifugiati, non si è mosso per le stragi di civili sotto i bombardamenti aerei, non si è mosso per le stragi di civili sotto i missili Scud, non si è mosso per le armi chimiche… Cos’altro vuoi raccontare? Siamo soli, il nostro sangue non vale niente agli occhi del mondo”.

Mentre mi parlava, io lo guardavo sdraiato su una brandina: in mutande, con una pallottola nel petto e due in una gamba. Abu Moqtad è un combattente dell’Esercito siriano libero. Oggi l’hanno colpito. Si è salvato per un soffio, ed è già pronto a tornare sul fronte. Con tutto l’idealismo dei suoi ventitré anni, e con tutta la rabbia di uno studente universitario che due anni fa era in piazza a manifestare, e che dalla piazza si è ritrovato in galera sotto i ferri della tortura. Tre mesi di carcere sono bastati a convincerlo, una volta uscito, a mettere su una brigata con una ventina di ragazzi e ragazzini del quartiere, armati di pistole e kalashnikov comprati con i risparmi e qualche rapina nelle case dei ricchi, per vendicare il sangue di tutti i cari uccisi dalla feroce repressione del regime.

È bastato un niente perché tornasse fuori un odio secolare, figlio delle tante guerre del passato tra sunniti e sciiti

Quanto è pericolosa, però, questa voglia di vendetta quando è priva di un’ideologia politica. Per i ragazzi di quest’armata popolare che è l’Esl, la guerra non è solo un’avventura totale, collettiva e iniziatrice. È anche un delirio di potere. Quanti ragazzi e ragazzini ho già sentito vantarsi in questi giorni dei nemici ammazzati: “Forse il terzo si è salvato, ma almeno due li ho colpiti alla testa, li ho stesi!”. “Dove sono i prigionieri? A questi gli tagliamo la gola, ma piano piano, devono soffrire, piano, piano”. Sembrano cacciatori che parlano delle loro prede. Sembra tutto un gioco, ma è questo il rischio più grande: che la guerra trasformi tanti partigiani idealisti in dei piccoli mostri.

Wassim ha il mio stesso timore. È uno dei pochi attivisti del movimento civile siriano rimasti ad Aleppo. Lo incontro a notte fonda, una volta riuscito a raggiungere l’appartamento dove si sono rifugiati gli attivisti del quartiere che due anni fa organizzavano le manifestazioni e oggi lavorano come citizen journalist sulle pagine Facebook della rivoluzione siriana. “Quando è cominciata la rivoluzione cantavamo ‘Uno, uno, uno. Il popolo siriano è uno’. Oggi è finita. Gli attivisti all’estero ti diranno che non è vero, che la società siriana è moderata e tollerante e che il settarismo, su cui il regime ha puntato tutto per salvarsi, non avrà la meglio. Forse è ancora vero per noi civili, ma non per chi ha preso le armi”.

Per spiegarsi meglio, Wassim va su internet e fa partire un video su YouTube. “Polizia di infedeli, aspettate alawiti, veniamo a tagliarvi la gola. Sciiti, veniamo a sgozzarvi!”. A cantare non è un ragazzo siriano. Dall’accento si direbbe un saudita. Barba folta, camicia a quadretti e giacchetta viola. Tiene il microfono davanti alla folla e canta quello che ormai è diventato un tormentone: l’inno delle brigate di Al Qaeda in Siria contro gli sciiti. “Il nostro capo è Bin Laden. Il nostro capo è il mullah Omar. Abbiamo distrutto l’America. Un volo di linea ha ridotto in polvere le torri gemelle!”. Il video è stato girato a giugno del 2013 a Taftanaz, nella provincia di Idlib. Wassim mette in pausa e mi fa notare un frame dove si leggono slogan di solidarietà con Al Qaeda in Mali. Poi fa ripartire il filmato. Intorno al cantante si vedono decine di ragazzi e ragazzini che sventolano le bandiere nere di Al Qaeda e ripetono in coro gli slogan: “Ci chiamate terroristi, ma così ci fate soltanto onore”. E di nuovo “Vi verremo a sgozzare sciiti, vi taglieremo la gola!”.

C’è una bella differenza tra gli slogan del 2011 del movimento nonviolento siriano e le parole dell’odio che ha infettato la Siria della guerra. Wassim per un po’ scherza canticchiando il ritornello della canzone, poi spegne il computer, accende una sigaretta e si fa serio. “Sono ancora una minoranza, ma sono i più pericolosi. Credono di combattere una guerra contro gli alawiti e più in generale contro gli sciiti, complici le alleanze di Bashar con l’Iran e Hezbollah. Sono ragazzi semplici, delle classi povere, non hanno istruzione e le armi gli hanno dato alla testa, sono diventati feroci. Uccidere è diventato banale. Vogliono solo il sangue del nemico”.

È come se il regime avesse acceso una bomba a orologeria. Fin dall’inizio delle proteste, Assad ha giocato a dividere la popolazione, bombardando i quartieri sunniti dai quartieri alawiti, e arruolando tra gli alawiti i suoi squadroni della morte. È bastato un niente perché tornasse fuori un odio secolare, figlio delle tante guerre del passato tra sunniti e sciiti. E se la guerra settaria rappresenta la deriva di una parte dei ragazzi dell’Esl, per le milizie di Al Qaeda in Siria è un ordine, una certezza, una dottrina. Per queste milizie alawiti e sciiti sono il nemico, sono gli infedeli, e il loro sangue deve lavare quello dei centocinquantamila martiri sunniti, massacrati in questi due anni dalle forze del regime.

(2. Continua)

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