20 gennaio 2022 11:38

Questo articolo fa parte di una serie dedicata ai trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica.

Quando è morto papà, sono volata a Chișinău e ho dormito una notte in casa sua. Ho diviso tra i vicini i suoi abiti e le sue cravatte. Non ho toccato i suoi libri. Poi mi sono seduta sul bordo del letto e ho acceso la tv. Era un canale russo. Una giovane signora cantava una canzone d’amore. La cosa mi ha talmente spaventata che ho buttato via il telecomando e mi sono subito alzata. Papà odiava la lingua russa, papà odiava i russi. Era decisamente sbagliato ascoltare una canzone d’amore in lingua russa in casa sua, nella casa di un uomo ora morto, ma che per tutta la vita aveva combattuto contro il sistema sovietico e aveva tanto desiderato parlare una sola lingua: la lingua romena. In quel preciso istante la sua figura si è presentata nitida davanti ai miei occhi: un anziano pieno di rimpianti, con i pugni serrati, con quella lingua straniera avvolta intorno al collo a mo’ di cappio. È stato allora che ho cominciato a piangere veramente, per tutto. Se ho abbandonato l’Unione Sovietica, è successo quella notte.

Sono nata che i miei genitori erano già quasi anziani, ma non è stato questo, bensì la lingua russa a creare tra noi una specie di recinto elettrificato. Papà non mi ha mai perdonata per il fatto che allora, quando la Moldova si è proclamata indipendente, quando nel 1989 i moldavi si sono ripresi l’alfabeto latino per il quale avevano lottato e, in alcuni casi, erano perfino morti, io non ho fatto ciò che avrei dovuto fare: recidere qualsiasi legame con la Russia. Non parlare più il russo, smettere di leggere in russo, non avere più amici russi. Non dico di non averci provato, dico solo di non esserci riuscita. Per me è stato difficile litigare con papà e i suoi amici, costretti a vivere a metà i migliori anni della loro vita, nella paura e seminascosti. Li ho visti perdere, a turno, la salute, il lavoro, la dignità, tutto per lo stesso ideale: uscire dall’Unione Sovietica e unirsi alla Romania. Mi pesavano le discussioni: i nonni deportati in Siberia, la mamma nata nel gulag, le persecuzioni. Chi ero io, cosa avevo scelto di essere? Me lo sono chiesta per anni di fila. Perché mi era così difficile odiare quando l’odio era giustificato, quando sembrava la strada giusta?

Indipendenza e transizione
Ricordo una mattina d’autunno, deve essere stato nel 1991. Tutti noi bambini del quartiere ci eravamo preparati per andare a scuola con gli zaini sulle spalle, come avevamo fatto per tutta l’infanzia. Poi qualcuno ha gridato ai ragazzi russi di andarsene alla stazione e di tornarsene a casa, perché la Moldova non era più casa loro. Era uno slogan popolare in quei giorni, lo si sentiva non solo per le strade, ma anche alla tv e sui giornali. È così che ha avuto inizio la scissione. Poi sono arrivati i momenti più duri: vicini che hanno smesso di parlarsi dopo anni di pacifica convivenza, manifestazioni, violenze per le strade, ritorsioni. Finalmente era arrivato il via libera e potevamo dire agli “occupanti” che non li volevamo più tra noi o, perlomeno, che li volevamo dalla nostra parte. L’esempio dei paesi Baltici era il nostro ideale, ma purtroppo è fallito. Si pensava che il vigoroso patriottismo dei moldavi avrebbe indotto i russi a imparare la lingua romena da un giorno all’altro. Non è successo, ma in cambio c’è stata una guerra. Il conflitto in Transnistria è cominciato circa un anno dopo, nel 1992, e ha decimato il paese. Una guerra inutile e brutale, la guerra degli orgogli. A tutt’oggi la Moldova non è riuscita a recuperare quel territorio dalla sfera di influenza russa. E la Russia non ha ritirato le sue truppe militari, come aveva promesso.

Al pari di altri paesi ex sovietici, anche la Moldova ha conosciuto anni di rinascita nazionale. Questo ha avuto ampia risonanza sul piano culturale, sulla letteratura, sul teatro, sulla musica, sullo sport. Scrittori, artisti e sportivi non erano più obbligati a presentarsi come “sovietici”, non erano più obbligati a passare al vaglio del potere di Mosca. La lingua romena è tornata a casa e, almeno ideologicamente, il legame con la madrepatria, la Romania, è stato ristabilito. È sempre difficile spiegare agli occidentali l’entusiasmo che un essere umano ha nel poter parlare la propria lingua in libertà, di potersi presentare con orgoglio. Eppure io mi ostino a farlo. Lo faccio ogni volta che ne ho l’occasione. E allora, in quei momenti, ho l’impressione di non essere solo io a parlare, ma le tante persone che vivono in me: la nostalgica, la ribelle e quella in cerca di vendetta.

All’indipendenza, tuttavia, sono seguiti anche gli anni di una difficile transizione (che sembrano non finire mai!), con il crollo dell’economia, la svalutazione monetaria, la tratta di esseri umani e l’indebolimento dei sistemi di protezione sociale. Anni di disoccupazione, di delusioni, in cui la Moldova ha occupato le prime pagine dei giornali internazionali per motivi non sempre lodevoli. Le è stato affibbiato il titolo di paese più povero d’Europa e in breve tempo ha assistito al ritorno al potere dei comunisti. L’entusiasmo iniziale ha lasciato spazio a un amaro scetticismo.

Cosa ha significato, in realtà, l’indipendenza per i moldavi? Se si tratta di individuare una sola cosa, direi innanzitutto la possibilità di scegliere. Essendo la Moldova un paese povero e senza risorse naturali, questa facoltà di scegliere si è sempre risolta nel trovarsi un fratello maggiore – la Romania, l’Europa, la Russia – tuttavia è stata comunque una scelta, ed è stata possibile solo dopo la caduta dell’Urss. Attualmente oltre un milione di moldavi si trova all’estero per motivi di lavoro o di studio. L’emigrazione, in particolare quella della popolazione in età lavorativa, è uno dei grandi fenomeni su cui – sono sicura – ben presto si tornerà con un tipo di approccio diverso. Allo stesso tempo per le nuove generazioni è una grande opportunità poter crescere e farsi strada nel mondo, occupare posizioni importanti, avere aspirazioni diverse.

La dissezione necessaria
Come scrittrice, quello che mi ha tormentato negli ultimi anni è stato sempre il dubbio di non fare ciò che dovrei. Tralasciando la via estrema, quella che molti dei miei coetanei hanno intrapreso, ho davvero il diritto morale di parlare del passato della mia famiglia? Come posso scrivere delle deportazioni, dei crimini del regime sovietico, se continuo a parlare la lingua di quelli che ne sono stati la causa. Il trasferimento in Francia è stato quel passo indietro che mi ha permesso di vedere le cose da una prospettiva diversa. Non più chiara, ma solo da un’altra angolazione. Ho fatto anch’io quella dissezione obbligatoria che a un certo punto ogni bambino nato in Unione Sovietica è stato costretto a fare. Quello che ho scoperto è stato un intero mondo cresciuto sulla base di una cultura straniera. Il muschio che inaridisce l’albero che lo ospita, alla fine diventa esso stesso albero. Sarebbe stato possibile tagliarlo fuori dalla mia vita, ma avrebbe significato tagliar fuori anche una buona parte della mia vita. Era necessario scegliere per poter continuare. Personalmente, mi sono lasciata alle spalle l’odio e ho separato una lingua da un regime, i politici dagli uomini semplici. È più difficile di quanto sembri, ma è fondamentale, specialmente quando ti trovi in mezzo a stranieri. Non dico di esserci riuscita, dico solo di averci provato.

Non sarò mai solo una o l’altra. Farò sempre parte della generazione “tra”. Delle persone cresciute tra due lingue e due identità.

I libri di mamma
A Parigi ho uno scaffale su cui ci sono alcuni libri della mia infanzia. Li tengo separati, mentre a casa i miei figli li chiamano i libri di mamma. Non perché siano stati scritti da me, ma perché solo io posso leggerli. La lingua in cui sono stati scritti non esiste più né è accettabile che esista. È la lingua moldava, una lingua ibrida fatta di parole romene e alfabeto russo, una lingua inventata dai sovietici con un unico scopo: tenerci separati dalla Romania. Mi sento anch’io esattamente come quei libri, chiari solo a metà, veri solo a metà. Una fusione tra cosa sono e cosa dovrei essere.

Dopo trent’anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, non sento granché. Non è una data riportata sul calendario, né in rosso né in nero. Se non avessi ricevuto l’invito a scrivere questo testo, sarebbe stato un giorno come un altro. Perché, in un certo senso, una parte di me è rimasta ancora lì, anche se la carta geografica dice diversamente. Ho amici in tutti i 15 stati appartenuti all’Unione Sovietica. Ci scambiamo messaggi, regali, attenzioni e battute che solo noi possiamo capire. È bello sapere che esistono persone a cui non devi spiegare il passato, anche se provengono da un altro paese, da un’altra cultura. Così come alcuni dicono di essere nati al mare o in montagna, noi diciamo di essere nati in Unione Sovietica. Non in un luogo, ma in una condizione.

Questo avrebbe potuto essere un testo nostalgico. E forse lo è davvero. Avrei potuto ricordare i cartoni animati muti, le grandi olimpiadi nei piccoli quartieri, le fontane e i ghiaccioli, le lettere con i francobolli incollati con la lingua, i mucchi di bottiglie ammassate. L’amicizia che rimane al di là dei confini. E ancora, tutte quelle amate stramberie che non mancheranno mai nella vita di un sovok, indipendentemente da dove la sorte lo porterà. Ma accanto a loro, accanto a questi ricordi paragonabili a tante lucine, per ognuno di noi ci sarà sempre un prezzo da pagare. Ho scritto del mio. Perché il modo in cui scegli di ricordare il passato finisce per definirti come persona.

(Traduzione di Elena di Lernia)

Questo articolo fa parte di una serie dedicata ai trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica. In collaborazione con Voxeurop.

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