27 maggio 2017 09:08

Durante il suo primo viaggio all’estero da presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha visitato l’Arabia Saudita, Israele, l’Italia, il Vaticano e il Belgio. Le notizie più importanti riguardano la tappa in Medio Oriente, che era anche la più attesa per sapere qualcosa di più della strategia di Trump nella regione e quale posizione prenderà sul conflitto interno al mondo musulmano.

Nel discorso che ha pronunciato a Riyadh il 21 maggio, Trump ha fatto capire di voler adottare una strategia tipica della politica estera statunitense, ma che era stata in parte accantonata dal suo predecessore Barack Obama: stringere rapporti sempre più stretti con l’Arabia Saudita e con Israele per contrastare l’influenza dell’Iran nella regione.

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Durante i suoi due mandati, Obama aveva fatto pressioni sui paesi del golfo Persico, tra cui l’Arabia Saudita, perché acquisissero una maggiore autosufficienza nel settore della difesa e perché smettessero di finanziare e sostenere gli estremisti sunniti nella regione (a partire dal gruppo Stato islamico in Siria), e aveva basato la sua strategia sull’idea che per dare stabilità al Medio Oriente bisognasse normalizzare i rapporti con l’Iran sciita.

Per questo Obama aveva concluso l’accordo con Teheran per mettere sotto controllo il suo programma nucleare. In questo modo Obama ha cercato di favorire i politici iraniani più moderati e di aprire la strada alla reintegrazione del paese nel sistema globale. Da questo punto di vista la sua strategia sembra aver funzionato: il 19 maggio il moderato Hassan Rohani ha rivinto le elezioni con il 57 per cento dei voti.

Ma la scelta di Obama aveva scontentato i paesi del golfo Persico, che accusano da sempre Teheran di destabilizzazione i paesi arabi: l’Iran ha avuto un ruolo fondamentale nella creazione di Hezbollah, il gruppo militante e partito politico libanese, e attualmente sostiene Bashar al Assad in Siria nella guerra contro i ribelli che vorrebbero rovesciarlo. Inoltre Teheran continua a finanziare milizie in Iraq, nel Bahrein e nello Yemen. Perciò non è un caso se sono stati proprio i paesi del golfo ad accogliere con maggiore entusiasmo il ritorno di Trump alle alleanze del passato.

L’intesa è stata suggellata dagli accordi commerciali firmati dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita per la vendita di armamenti per 110 miliardi di dollari. Trump è stato molto criticato perché l’Arabia Saudita partecipa alla guerra civile nello Yemen, dove più di diecimila civili sono rimasti uccisi, tre milioni di persone sono state costrette a fuggire e il resto della popolazione è minacciato dalla carestia.

A proposito del conflitto tra israeliani e palestinesi, Trump si è limitato a dire che “con il compromesso, sarà possibile raggiungere un accordo di pace” e che “la pace non può attecchire dov’è tollerata la violenza”.

Infine, durante un vertice a Bruxelles, Trump ha ribadito la sua posizione sulla Nato: gli Stati Uniti continueranno a sostenere l’alleanza atlantica, ma si aspettano che gli altri paesi contribuiscano di più dal punto di vista finanziario e militare.

Sconfitto sull’immigrazione
Una corte d’appello della Virginia ha confermato il blocco di un ordine esecutivo approvato da Trump per vietare temporaneamente l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini provenienti da sei paesi a maggioranza musulmana: l’Iran, la Libia, la Somalia, il Sudan, la Siria e lo Yemen. La misura inoltre sospendeva per 120 giorni il programma di accoglienza dei rifugiati e riduceva da 120mila a 50mila il numero di rifugiati che gli Stati Uniti accolgono ogni anno. Secondo il tribunale il provvedimento della Casa Bianca è basato “sull’intolleranza e sulla discriminazione religiosa”. L’amministrazione sostiene invece che l’ordine è giustificato da questioni di sicurezza nazionale. Un altro ordine esecutivo per vietare l’ingresso ai cittadini da alcuni paesi musulmani era stato approvato da Trump a gennaio e subito dopo bocciato dai tribunali. In quel caso la Casa Bianca aveva deciso di non fare ricorso alla corte suprema, e aveva promulgato un decreto leggermente modificato. Ora che anche il secondo è stato bocciato, il dipartimento di giustizia ha annunciato che farà appello al massimo organo della giustizia statunitense.

I rischi della riforma sanitaria
La riforma sanitaria voluta da Trump e approvata dalla camera dei rappresentanti all’inizio di maggio lascerebbe 23 milioni di statunitensi senza copertura sanitaria nel giro di dieci anni. Lo rivela uno studio del Congressional budget office (Cbo), un ente indipendente che svolge analisi economiche per il congresso. Il motivo per cui tante persone perderebbero il diritto alle cure mediche è che la nuova legge, chiamata American health care act, cancella una serie di misure introdotte dall’Obamacare (la riforma voluta da Barack Obama) per fare in modo che più persone possibili comprino un’assicurazione sanitaria e per impedire alle compagnie che vendono assicurazioni sanitarie di negare o di offrire polizze con premi molto alti a persone che hanno già avuto problemi di salute. Qui nel dettaglio i principali punti della riforma.

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La proposta di legge, che era stata bocciata a marzo e poi modificata per soddisfare l’ala più conservatrice del Partito repubblicano, ridurrebbe il deficit federale di circa 119 miliardi di dollari tra il 2017 e il 2026. Lo studio del Cbo potrebbe complicare il percorso della legge al senato: nella camera alta i repubblicani hanno una maggioranza di solo due seggi e a quanto pare ci sono vari senatori non disposti a votare il testo approvato dalla camera, perché sanno che la riforma è poco popolare nel paese e temono di perdere il sostegno dei loro elettori nei singoli stati (a novembre del 2018 si terranno le elezioni di metà mandato).

Mitch McConnell, leader della maggioranza al senato, ha detto in un’intervista alla Reuters di non essere sicuro di riuscire a raccogliere i voti necessari per far passare qualsiasi riforma sanitaria.

Altri tagli per le famiglie in difficoltà
Pochi giorni prima che uscisse lo studio del Cbo, la Casa Bianca ha presentato una proposta di bilancio per il prossimo anno fiscale (che comincia a ottobre) che prevede forti tagli al Medicaid, il programma federale che consente di avere una copertura sanitaria alle persone e alle famiglie con redditi molto bassi . L’entità dei tagli non è chiara, ma si parla sicuramente di una cifra superiore ai 610 miliardi di dollari. Il congresso potrà bocciarla o modificarla, ma la proposta dimostra che Trump ha intenzione di ridurre la spesa federale per aiutare le famiglie in difficoltà, una cosa che in campagna elettorale aveva promesso di non fare.

Nella proposta di bilancio ci sono tagli ad altri programmi contro la povertà – come il Supplemental nutrition assistance program, che nel 2016 ha fornito sussidi a 44 milioni di persone – e a quelli che si occupano di ricerca e protezione dell’ambiente. In generale Trump, che in campagna elettorale aveva adottato un approccio interventista sulla spesa pubblica, sembra voler adottare le ricette tradizionali del Partito repubblicano, che prevedono tagli ai programmi federali e riduzione della pressione fiscale.

Gli scienziati contro la Casa Bianca
Il 24 maggio un gruppo di scienziati ha pubblicato sul Natural Scientific Report un articolo per contestare le posizioni dell’amministrazione Trump sul cambiamento climatico. Trump ha detto più volte di non credere agli studi sull’argomento e una volta entrato alla Casa Bianca ha proposto di tagliare i fondi dell’Agenzia per la protezione ambientale (Epa) e degli altri enti che si occupano di ridurre l’inquinamento e realizzano studi sui cambiamenti climatici.

L’articolo è un’accusa diretta a Scott Pruitt, il direttore dell’Epa, che è considerato uno scettico del cambiamento climatico.

Confessioni a Duterte
Secondo la trascrizione di una telefonata rivelata dal New York Times, Trump avrebbe dato al presidente filippino Rodrigo Duterte informazioni sensibili sulla strategia militare statunitense in Corea del Nord. “Abbiamo due sottomarini, i migliori del mondo. Abbiamo due sottomarini nucleari, ma non abbiamo intenzione di usarli”. Diversi commentatori ritengono che quest’episodio faccia aumentare i timori sul modo in cui Trump gestisce le informazioni riservate. A metà maggio era stato criticato per aver passato a Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russo, e a Sergej Kisljak, l’ambasciatore di Mosca negli Stati Uniti, informazioni d’intelligence altamente riservate (ottenute da Israele) sulle attività del gruppo Stato islamico.

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