19 gennaio 2018 11:50

Qualche anno fa è stato pubblicato un libro di fantascienza distopica piuttosto divertente. Si chiama False verità e il suo autore è Matt Ruff. Parla di un mondo alla rovescia in cui l’11 settembre 2001 due arei dirottati da fondamentalisti cristiani si schiantano contro le torri del Tigris & Euphrates World trade center di Baghdad, un altro finisce contro il parlamento di Riyadh e un quarto precipita prima di raggiungere il suo obiettivo, la Mecca. È l’inizio di una guerra tra i ricchi, sviluppati e progressisti Stati Uniti d’Arabia al terrorismo che arriva da un’America frantumata, poverissima e governata da rissosi movimenti evangelici di vario tipo.

La cultura dominante in False verità è ovviamente quella dei ricchi, colti e multietnici paesi arabi, mentre la cultura occidentale, con il suo rock and roll e quella cucina unta e immangiabile, è considerata esotica e incomprensibile. Qualcuno gli riconosce un certo fascino, ma in genere la musica, la lingua e i costumi dell’America sono visti come una primitiva bizzarria.

In questo mondo alla rovescia immaginato da Ruff, Ensen, l’album dell’artista tunisina Emel Mathlouthi (nei negozi in Italia il 19 gennaio, a un anno dalla sua uscita nel resto d’Europa), sarebbe qualcosa di molto simile a Homogenic di Björk.

Emel non gioca a fare quella che viene da Marte perché non ne ha bisogno

I punti in comune tra i due album sono tanti: è il lavoro di un’artista che mescola strumenti ad arco tradizionali a un’elettronica organica e senza connotazioni temporali o modaiole; un’artista che canta con una voce inconfondibile che sembra arrivare da un posto lontano ma familiare. È un disco pop che alterna sperimentazione e accessibilità senza perdere una sua limpida visione d’insieme.

Come Björk anche Emel viene da un posto periferico ma a differenza di Björk (che canta in inglese), Emel canta la maggior parte delle sue canzoni in arabo, rivisitando in modo personalissimo la ricca tradizione pop del Maghreb. Emel non gioca a fare quella che viene da Marte perché non ne ha bisogno. Per quanto riguarda la geopolitica del pop occidentale lei, pur arrivando da Tunisi, una città che è a 600 km in linea d’aria da Palermo, sembra arrivare da un posto molto più strano e lontano. Ensen è diverso da tutto quello che si sente in giro oggi, ma allo stesso tempo non ha nulla di esotico e non cerca in nessun modo di solleticare nel pubblico quel tipo di reazione. Quella di Emel non è world music: è sofisticata, emotiva musica pop per un mondo ormai senza confini.

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In più Emel ha una storia impegnativa sulle spalle. La sua Klemti horra è diventata l’inno della primavera araba tunisina ed Emel è stata anche invitata a cantarla a Stoccolma nel 2015, in occasione della consegna del premio Nobel per la pace. È dunque un’artista che ha avuto grande visibilità nel suo paese, anche per ragioni politiche ma che non vuole essere catalogata per forza come cantante di protesta o come quota rosa etno-politica in un festival musicale.
“Sono molto felice di come l’album è stato accolto”, dice Emel via Skype da New York, dove vive da qualche anno.

“Mi sembra che il suono di questo lavoro sia stato capito da siti specialistici come Consequence of Sound e Pitchfork. Il problema di tanta musica che viene da paesi non occidentali - ed è, mi dispiace dirlo, un problema tipicamente bianco - è che deve avere per forza un legame con certi stereotipi: possono essere il sole, i colori dell’Africa o altre cose così. E anche la politica, ultimamente, è uno di quei valori che rende notiziabile la musica non occidentale. Se sei un attivista va bene: sei ascoltato e ti invitano ai festival. È davvero difficile riuscire a essere considerati musicisti e basta. Penso che abbiamo bisogno di più possibilità e più spazi per esprimere chi siamo e cosa facciamo, al di là delle aspettative che possono esserci su di noi. Però mi sembra che le cose stiano cambiando, sento meno forte la pressione di essere considerata solo e unicamente un’artista tunisina che parla più della situazione politica del suo paese che di musica”.

Dalla Tunisia al mondo
Tra il successo di Klemti horra e la realizzazione di Ensen sono passati cinque anni. Cinque anni decisivi sia per la vita dell’artista sia per il suo paese che, dopo l’euforia rivoluzionaria, si è ritrovato a fare i conti con la stessa classe dirigente corrotta e autoritaria che c’era ai tempi del presidente Ben Ali.

“È stata una lotta per me”, dice Emel. “soprattutto trovare l’ambiente giusto in cui tornare a fare musica. Avevo in mente una direzione ma non sapevo come prenderla: avevo delle canzoni e sicuramente sapevo cosa non volevo. Cercavo qualcosa di più di una bella canzone o una bella melodia”.

A quel punto Emel ha capito che non c’era una sola persona giusta con cui produrre il nuovo album e quindi si è messa in viaggio. Ha lavorato con più produttori, tra cui l’islandese Valgeir Sigurðsson (eccola, la Björk commection!) e la sua storica collaboratrice francotunisina Amine Metani, e ha registrato in sette paesi diversi.
“Grazie a tutte queste persone ho capito che potevo sperimentare rimanendo fedele alla mia cultura di origine. Ho capito che il mio essere tunisina, il mio cantare in arabo, è qualcosa di molto naturale. È lì, dentro di me, e non ha bisogno di essere enfatizzato in modo particolare a fini seduttivi”.

Ma come vive Emel nell’America di Trump? Si sente a suo agio nel paese del muslim ban?

“Stando a New York non mi accorgo di gran che. Non faccio parte di una comunità particolare e il mio aspetto mi rende abbastanza invisibile: potrei essere spagnola, mediterranea o brasiliana, quindi non mi sono mai sentita trattata in modo diverso. Per me è molto importante però essere lì: Trump vuole che la gente sia spaventata. Col mio vivere lì e il mio fare arte lì, dimostro che sono umana e che non c’è nulla di cui aver paura. Canto in una lingua diversa, con un’espressività diversa: la mia differenza è ben visibile a tutti e sento che è doppiamente un valore nell’America di Trump”.

Lo strumento di Emel è la voce. Una voce straordinariamente empatica e duttile. Una voce che, soprattutto nei colori, in certi melismi e nelle inflessioni, può suonare familiare a noi italiani. È il suono del Mediterraneo che contiene il ricordo di un mare che anticamente ci univa e ci rendeva una cosa sola. E questa è una caratteristica notevole in un periodo in cui il Mediterraneo anziché unire sembra dividere.

“È questo secondo me il ruolo importante che svolgono gli artisti oggi”, conclude Emel. “Sottolineare tutto quello che ci unisce in un momento in cui tutti sembrano voler parlare di quello che ci divide”.

Emel sarà in tour in Italia a febbraio.

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