In termini di estetica, con Wes Anderson e il New Yorker il livello è sempre molto alto. Così erano le aspettative per quello che il regista statunitense ha definito “una lettera d’amore ai giornalisti”. Il film prende la forma dell’ultimo numero del French Dispatch, un giornale americano che ha sede nella cittadina inventata di Ennui, lungo il fiume Blasé, un avamposto statunitense in Europa. Così Anderson ci regala un’antologia di tutto quello che ti aspetti di trovare su un numero del New Yorker: un sommario, rubriche, bellissimi disegni e poi tre corposi articoli. Come spesso accade nei lavori di Anderson, il film è caratterizzato dalla sensazione agrodolce di trovarsi leggermente fuori tempo: storie degli anni settanta narrate da giornalisti di mezza età che guardano ai loro giorni di gloria ormai passati. Interessante notare come i sogni in technicolor di Anderson siano caratterizzati da toni sempre più cupi. Colpisce il fatto che The french dispatch, cominciato a girare nell’autunno del 2018, finisca per riflettere alcuni degli argomenti più caldi dell’ultimo anno e mezzo ed è singolare che il meno contemporaneo dei registi hollywoodiani realizzi un film che parla di prigione, polizia e proteste.

Nate Jones, Vulture

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Questo articolo è uscito sul numero 1435 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati