È stata definita la più grave minaccia nucleare al mondo dopo la crisi cubana del 1962. Nel tentativo di salvare l’invasione dell’Ucraina, Vladimir Putin ha ribadito la possibilità di usare le armi atomiche. Dopo aver annunciato l’annessione di quattro regioni dell’Ucraina orientale, il presidente russo ha dichiarato che potrebbe fare ricorso a “tutti i mezzi necessari” per garantire la sicurezza della Russia, ricordando che nel 1945 gli Stati Uniti hanno “creato un precedente”, sganciando due bombe atomiche sul Giappone. Il leader ceceno Ramzan Kadyrov ha lasciato intendere che Putin starebbe pensando di usare “armi atomiche a bassa potenza” in Ucraina. Ma le parole di Kadyrov sono state subito smentite dal Cremlino. Il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, ha dichiarato che non sono state fatte “altre considerazioni” a parte seguire la dottrina militare russa, che prevede l’uso di armi nucleari solo se la Russia viene colpita per prima o se l’esistenza dello stato è in pericolo. I funzionari e gli esperti militari occidentali pensano che il rischio di un attacco nucleare sia basso, ma ammettono che le sconfitte delle forze russe in Ucraina meridionale e orientale lo rendono più probabile.

La crisi di Cuba riguardava delle armi nucleari strategiche, abbastanza potenti da spazzare via intere città a migliaia di chilometri di distanza dal fronte. In Ucraina, invece, si parla di armi meno potenti, definite tattiche. Questi ordigni sono pensati per essere usati sul campo di battaglia e distruggere obiettivi all’interno di un’area limitata. Molte sono comunque più distruttive della bomba sganciata su Hiroshima dagli statunitensi, che aveva una potenza di circa 20 chilotoni (ventimila tonnellate di tritolo).

“I cosiddetti missili nucleari tattici di solito hanno una potenza compresa tra uno e cinquanta chilotoni e hanno effetti devastanti in aree di circa cinque chilometri quadrati”, ha dichiarato alla Bbc il generale britannico Richard Barrons. In passato l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti avevano enormi quantità di queste armi, ma dopo la fine della guerra fredda Washing­ton le ha smantellate tutte tranne 230, nella convinzione che “armi convenzionali sempre più efficienti potevano ottenere risultati migliori”, come scriveva nel 1989 il Bulletin of the Atomic Scientists. La Russia ha conservato circa duemila testate nucleari tattiche. Possono essere piazzate su diversi sistemi usati per lanciare esplosivi convenzionali (come i missili da crociera Kalibr o i missili balistici Iskander) da terra o dal mare.

Tre scenari

Gli esperti indicano tre scenari in cui la Russia potrebbe usare le armi atomiche tattiche. Il primo è un attacco dimostrativo: un’esplosione nucleare che non provocherebbe vittime. Potrebbe avvenire sottoterra, sul mar Nero, sui cieli dell’Ucraina a un’altitudine elevata o su un territorio disabitato come l’isola dei Serpenti. L’impulso elettromagnetico distruggerebbe tutte le apparecchiature elettroniche non protette, mentre la ricaduta radioattiva, inizialmente consistente, si ridurrebbe all’uno per cento nell’arco di 48 ore. Gran parte della polvere radioattiva risucchiata dalla nube atomica ricadrebbe sul territorio circostante nell’arco di 24 ore e rappresenterebbe un elevato pericolo biologico. Altre particelle potrebbero essere disperse dal vento e depositarsi in concentrazioni molto minori su vaste aree del pianeta.

Anche un attacco dimostrativo basterebbe a provocare un’escalation, rafforzando la prospettiva di un attacco russo contro una grande città. Probabilmente susciterebbe una reazione internazionale senza portare vantaggi militari, rendendo la Russia “più isolata di quanto non lo sia mai stata”, come ha dichiarato il presidente statunitense Joe Biden il 16 settembre.

Inoltre l’effetto dimostrativo sarebbe poco chiaro, perché proverebbe che la Russia è disposta a rompere il tabù nucleare ma non a ricorrere a tutto il potere distruttivo di queste armi. Secondo Law­rence Freedman del King’s college di Londra, questo è uno dei motivi per cui nel 1945 gli Stati Uniti avevano scartato un attacco dimostrativo prima di sganciare la bomba atomica su Hiroshima.

Il secondo scenario è un attacco contro un obiettivo militare o un’infrastruttura cruciale in territorio ucraino, per esempio la centrale nucleare di Zaporižžija. Ma anche l’efficacia di questa opzione appare discutibile. Le forze armate ucraine sono piuttosto disperse e gli studi dell’esercito statunitense indicano che una testata nucleare da un chilotone deve esplodere nel raggio di 90 metri da un carro armato per provocare danni consistenti. Secondo alcuni esperti per la Russia non avrebbe senso colpire obiettivi in regioni che ormai considera parte del suo territorio. Inoltre le truppe russe sarebbero esposte alla ricaduta radioattiva.

Il terzo e più grave scenario consiste in un attacco contro un paese della Nato (compresi gli Stati Uniti). Dmitri Trenin, ex capo del Carnegie Moscow center, ha dichiarato alla tv russa che Mosca deve dimostrare che fa sul serio riguardo a un attacco nucleare contro gli Stati Uniti se non vuole perdere il suo potere deterrente, aggiungendo che l’occidente sbaglia a dare per scontato che Putin userebbe le armi atomiche solo in Ucraina: “È possibile che l’attacco non avvenga sul campo di battaglia, ma a una certa distanza”.

È difficile prevedere come risponderebbe l’occidente a un attacco contro la Nato. Di sicuro scatterebbe l’articolo 5, che prevede una reazione collettiva in caso di attacco contro uno stato dell’alleanza. Mosca rischierebbe una rappresaglia nucleare devastante degli Stati Uniti. A settembre Jake Sullivan, consulente per la sicurezza nazionale di Biden, ha dichiarato che qualunque attacco russo avrebbe “conseguenze catastrofiche”, senza specificare quali. Sullivan ha precisato che gli Stati Uniti in privato hanno “illustrato chiaramente” alla Russia quale sarebbe la reazione dell’occidente.

Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha parlato di “conseguenze gravi”. Tra queste potrebbe esserci un attacco convenzionale contro la flotta russa del mar Nero, come ha suggerito il generale statunitense David Petraeus, ex direttore della Cia. Ma in generale gli occidentali sono rimasti piuttosto vaghi sulla loro minaccia di rappresaglie anche nel caso in cui Putin si limitasse a colpire l’Ucraina, paese esterno alla Nato, visto che la deterrenza si basa sull’ambiguità. ◆as

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Questo articolo è uscito sul numero 1481 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati