Lo stato del Manipur è un susseguirsi di valli fertili e colline rigogliose al confine con la Birmania, nell’India nordorientale. Ci vivono circa tre milioni di persone. Negli ultimi due mesi è stato anche teatro di un’esplosione di violenza sanguinaria in uno dei conflitti etnici più antichi in corso in Asia. Per ora gli scontri sembrano essersi placati, ma non si vede alcuna volontà politica di risolvere la tensione, che potrebbe riesplodere in qualsiasi momento.

La comunità meitei, di religione indù e maggioritaria nello stato, è in lotta con le tribù delle colline, composte in maggioranza da cristiani kuki. I meitei, che controllano la valle e Imphal, la capitale dello stato, accusano da tempo i kuki di essere stati ingiustamente privilegiati grazie al loro status ufficiale di comunità tribale. I kuki si oppongono all’inclusione dei meitei nella lista delle tribù riconosciute dallo stato, che gli consentirebbe di avere una quota riservata di posti di lavoro nella pubblica amministrazione e di stabilirsi in aree destinate ai gruppi tribali. Temono che questo rafforzerebbe ulteriormente il dominio economico dei meitei e minaccerebbe i mezzi di sostentamento dei kuki, già piuttosto limitati.

Più di 130 persone sono state uccise e altre centinaia ferite in aggressioni di massa e scontri con le forze di sicurezza. La situazione è peggiorata dopo una marcia di protesta organizzata il 3 maggio da un sindacato di studenti tribali contro l’inclusione dei meitei nella lista. Centinaia di case e chiese sono state date alle fiamme e chi vive in aree miste è stato costretto a scappare. Gli sfollati sarebbero sessantamila. Secondo le persone che vivono nello stato, si sta attuando di fatto una pulizia etnica ai danni dei kuki.

L’escalation è stata preceduta da mesi di conflitto latente in cui il governo del Manipur non è stato neutrale. Il governatore è Biren Singh del Bharatiya janata party (Bjp), il partito del primo ministro Narendra Modi, ed è un meitei. Singh accusa i kuki di spacciare droga e offrire ospitalità a immigrati irregolari. Con la scusa di proteggere le foreste, negli ultimi mesi ha sfrattato molte persone dai loro villaggi.

Senso di normalità

Negli ultimi giorni la violenza è diminuita, grazie a una più numerosa e meglio organizzata presenza delle forze di sicurezza del governo centrale, oltre che per i disagi dovuti alle pesanti piogge monsoniche. Gli abitanti della capitale e delle colline riferiscono di una calma apparente. New Delhi ha schierato l’esercito per proteggere una zona cuscinetto tra i gruppi rivali. Dall’inizio di maggio internet è bloccata nella maggior parte dello stato.

Il conflitto resta irrisolto. All’inizio del mese è stata convocata dal governo una commissione di pace ma, prima ancora che si formasse, i leader di entrambi gli schieramenti ne hanno delegittimato i componenti, rifiutando qualsiasi coinvolgimento. I capi kuki hanno riesumato vecchie rivendicazioni per una maggiore autonomia politica come precondizione a qualsiasi ipotesi di dialogo, una possibilità esclusa da Singh.

Lo stesso governatore sembra muoversi su un terreno scivoloso. Dopo aver incontrato il ministro dell’interno Amit Shah a New Delhi, Singh ha ammesso con i giornalisti che la situazione era “molto caotica” e che “non si sa cosa succederà ora”. Al tempo stesso, però, sembra voler comunicare all’esterno un contraddittorio senso di normalità. Il 28 luglio ha ordinato ai dipendenti del governo di tornare al lavoro, pena il taglio dello stipendio. Una decisione che ha provocato grande frustrazione tra gli sfollati, che hanno paura di rientrare nelle loro abitazioni o non possono perché in molti casi sono state distrutte. “Come facciamo se non abbiamo la certezza che il governo voglia proteggerci?”, chiede Benjamin Mate, un kuki e politico del Bjp scappato da Imphal a maggio.

Le autorità locali sono considerate deboli e compromesse e i leader di entrambi gli schieramenti sperano che il governo centrale sia in grado di mediare e trovare un accordo. Tuttavia, nonostante una visita di quattro giorni nello stato compiuta il mese scorso da Shah, sono emersi pochi segnali di una possibile soluzione politica, al di là della promessa da parte di New Delhi di garantire la sicurezza nella regione. Le violenze minacciano di riesplodere. I gruppi armati controllano ancora migliaia di armi saccheggiate dagli arsenali della polizia.

Nel frattempo quella degli sfollati si sta trasformando in una crisi umanitaria. I campi disseminati in tutto il Manipur per ospitarli si stanno riempiendo di chi torna nello stato dopo essersi rifugiato altrove dai familiari. Un abitante di Churachandpur, un distretto tribale nel sud dello stato, racconta che al momento i campi ospitano circa 16mila persone in condizioni terribili dal punto di vista igienico, rese ancora più gravi dalle forti piogge. Febbre e diarrea dilagano, i mercati restano chiusi e medicine e prodotti alimentari sono in esaurimento, anche perché gli aiuti promessi dal governo dello stato non hanno ancora raggiunto l’area. Se la possibilità di un accordo continua a essere molto debole, presto le evacuazioni forzate potrebbero dimostrarsi ancora più pericolose delle violenze. ◆ gim

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1519 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati