Come ogni album dei Rolling Stones che è stato definito “il migliore dai tempi di Some girls del 1978”, Hackney diamonds si presenta con testi abbastanza imbarazzanti, riff di chitarra ambigui e autoplagi (come Keith Richards che suona Tumbling dice all’inizio di Driving me too hard) che lo tengono fuori dal pantheon delle loro più grandi uscite. Ma si distingue per uno stile genuinamente contemporaneo che gli Stones non riuscivano a incarnare con successo da quando avevano fatto incontrare il punk emergente con la disco alla fine degli anni settanta. La batteria frizzante, i ritornelli accattivanti e le voci peperine di questo album hanno una lucentezza pronta per la radio senza compromettere i tratti essenziali degli Stones. Il fatto che la band non sembri completamente fuori dal tempo – anzi, suona più energica di quanto non lo fosse da decenni – non è un’impresa da poco considerando che non pubblicavano un album di materiale originale da quasi vent’anni. Per quanto sia energico e orecchiabile, Hackney diamonds, suggerisce che gli Stones farebbero meglio ad abbracciare la loro età piuttosto che affermare la loro eterna giovinezza. L’album si chiude con una cover di Rolling stone blues, il classico di Muddy Waters del 1950 che ha dato il nome alla band. Registrato dal vivo con solo Richards alla chitarra e Jagger alla voce e all’armonica, è una performance spettrale e da brivido. Se la maggior parte di Hackney diamonds prova che gli Stones possono ancora essere rilevanti, questo brano finale dimostra che possono fare di meglio: essere senza tempo.
Jeremy Winograd, Slant

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Questo articolo è uscito sul numero 1535 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati