La prima settimana di marzo del 2025 ci ha regalato un momento politico tragicomico degno di Armando Iannucci, l’autore della serie satirica Veep: all’assemblea generale delle Nazioni Unite gli Stati Uniti sono stati l’unico paese a votare sia contro l’istituzione della Giornata internazionale della speranza e sia contro quella della Giornata internazionale della coesistenza pacifica. Ancora più sorprendente è stata la lettera con cui Washington ha motivato la sua decisione. Nel documento il governo statunitense respingeva in modo categorico tutti gli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (Oss). Non era un semplice ritiro, come nel caso dell’accordo di Parigi sul clima, ma una denuncia esplicita dell’ambizione collettiva a migliorare le condizioni materiali dell’umanità. Gli statunitensi, spiegava la lettera, si erano espressi chiaramente alle elezioni: volevano che il governo mettesse gli Stati Uniti al primo posto, occupandosi innanzitutto dei suoi cittadini.

Tuttavia la giustificazione non si limitava al nazionalismo ma era una contestazione più ampia dell’ordine geopolitico. Secondo Washington, il linguaggio della risoluzione – in particolare il riferimento alla “coesistenza pacifica” – poteva essere interpretato come un sostegno ai cinque princìpi della coesistenza pacifica promossi dalla Cina. Per gli stessi motivi gli Stati Uniti hanno contestato l’espressione “dialogo tra civiltà”, interpretandola come un’allusione all’Iniziativa per la civiltà globale lanciata dal presidente cinese Xi Jinping. Per gli Stati Uniti la risoluzione era un sostegno mascherato all’ideologia del Partito comunista cinese. Mentre il resto del mondo procedeva al voto, l’intervento dell’amministrazione guidata da Donald Trump ha messo a nudo una realtà ormai difficile da ignorare: si è ormai infranto il presunto consenso sugli Oss, che dal 2015 sono stati presentati come un modello universale per lo sviluppo.

La stroncatura senza appello di Wash­ington è un motivo d’imbarazzo, e il fatto che l’amministrazione Trump abbia cancellato aiuti oggi più che mai necessari è un crimine contro il buonsenso umanitario. Ma l’indignazione verso Trump e la galassia Maga non dev’essere una cortina fumogena che impedisce di riconoscere un fallimento più ampio e profondo.

L’idea degli Oss è sempre stata una scommessa azzardata e nella pratica ha dato così pochi frutti da far sorgere il dubbio che sia stato solo un esercizio autocelebrativo delle élite globali, che per soddisfare la propria vanità collettiva hanno cercato di convincere se stesse e il mondo di avere una strategia coraggiosa e di ampio respiro. Ma un conto è annunciare gli Oss, un altro è mobilitare e sostenere gli sforzi necessari a realizzarli.

Tutto questo riflette, a sua volta, il rifiuto di confrontarsi con il significato reale dello sviluppo e di prevedere le reazioni dei poteri dominanti una volta raggiunto l’obiettivo. Con il senno di poi gli Oss, per quanto ambiziosi e animati da buone intenzioni, sembrano sempre più il tentativo di disegnare un mondo organizzato in base a un foglio elettronico di valori universali, dove la politica è messa tra parentesi e gli interessi economici pubblici e privati si fondono in un equilibrio rassicurante. Magari è la promessa di un “mondo migliore”, ma che non tiene conto dei conflitti e della politica. Quando lo sviluppo diventa realtà i sospetti sull’ipocrisia occidentale aumentano. La Cina, il più grande esempio di sviluppo economico della storia, ha sollevato dalla povertà centinaia di milioni di persone. Gli aiuti esteri, gli investimenti e il commercio hanno contribuito, ma il vero motore è stato la mobilitazione interna insieme agli investimenti diretti dello stato. Forse proprio per questo il successo cinese non ha favorito maggiore fiducia o consenso intorno a un ordine fondato sulle regole. Al contrario, ha innescato una nuova guerra fredda. Dopo il “pivot asiatico” di Barack Obama (la strategia lanciata nel 2011 che spostava il focus della politica estera statunitense verso l’Asia), durante il primo mandato di Donald Trump, sotto l’amministrazione di Joe Biden e nel secondo mandato di Trump, la Cina è stata identificata dal dipartimento della difesa statunitense come la principale minaccia strategica per gli Stati Uniti. Ciò in parte è dovuto ai progressi della tecnologia militare di Pechino e alle sue rivendicazioni nel mar Cinese meridionale. Il vero motivo, però, è la sua forza economica, che la stessa Cina vede come il riscatto da “secoli di umiliazioni”. Nell’epoca dei potenti stati-nazione, lo sviluppo – quando raggiunge una scala significativa – equivale a una minaccia all’ordine internazionale.

Se l’esempio della Cina non basta, c’è quello della Russia. Alla fine degli anni novanta, Mosca era sull’orlo del collasso. Il suo primo presidente eletto, Boris Eltsin, era sotto l’ala protettiva e il controllo di Washington. Oggi l’indipendenza strategica e la legittimità interna del presidente Vladimir Putin si fondano su un percorso di ripresa economica e finanziaria. Anche in questo caso ha fatto da motore l’idea di avere una missione storica alimentata dal risentimento. Da quando è arrivato al potere Putin ha sempre considerato elementi inscindibili lo sviluppo economico, la rinascita nazionale e l’affermazione di sé, anche attraverso la forza. Questo non deve sorprendere. La sua decisione di lanciare una guerra su vasta scala contro l’Ucraina nel 2022 è stata una scommessa molto rischiosa. Ma l’uso della forza rientra in una dinamica storica consolidata. La sua interpretazione brutale della politica di potenza, in cui capacità economica e benessere collettivo sono considerati sempre al servizio della sovranità nazionale e del potere statale, non risponde alla logica di un equilibrio di poteri da ancien régime: i progenitori politici di Putin sono le potenze imperialiste dell’ottocento.

Kabul, Afghanistan, 15 dicembre 2024 (Wakil Koshar, Afp/Getty)

Anche l’economia dello sviluppo non è nata in un contesto geopoliticamente innocente, tutt’altro. A partire da pensatori come il tedesco Friedrich List, nella prima metà dell’ottocento, lo sviluppo è stato legato agli emergenti interessi nazionali degli Stati Uniti e all’aspirazione tedesca all’unificazione. Negli anni venti e trenta del novecento sia le élite tecnocratiche dei fragili stati-nazione dell’Europa orientale, che avevano da poco raggiunto l’indipendenza, sia i regimi imperialisti dell’Europa occidentale puntarono su politiche economiche guidate dallo stato.

L’economia dello sviluppo, sia nella teoria sia nella pratica, ha raggiunto la maturità quando gli Stati Uniti cominciarono a sponsorizzare le lotte per la decolonizzazione durante la guerra fredda. In quel periodo si affermò una nuova visione del mondo diviso in tre: il blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti (primo mondo), il mondo comunista (secondo mondo) e il cosiddetto terzo mondo, a cui erano rivolte le politiche di sviluppo. Con il piano Marshall in Europa – ma anche in America Latina, in Indonesia e in Vietnam – l’economia dello sviluppo promossa dagli Stati Uniti si mostrava come antidoto ai modelli alternativi di crescita, organizzazione politica e allineamento geopolitico proposti dall’Unione Sovietica di Iosif Stalin e dalla Cina di Mao Zedong.

Il bilancio è stato a dir poco altalenante. Fuori dell’Europa occidentale i risultati migliori furono registrati non a caso nei paesi dell’Asia più allineati con gli Stati Uniti: il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan. Il successo, però, rischiava di diventare controproducente. Negli anni ottanta gli Stati Uniti cominciarono a temere la sfida tecnoindustriale del Giappone. Questo originario spettro di “invasione asiatica” ha influenzato profondamente la percezione di Trump sui danni del libero scambio all’economia statunitense.

I successi sono stati sporadici. Nel complesso gli anni settanta e ottanta furono un periodo disastroso per le politiche di sviluppo: l’America Latina travolta dalla crisi del debito; l’Africa subsahariana devastata dall’aids; l’India intrappolata per anni in una povertà estrema. Intanto la Cina tentava faticosamente di rimettersi in piedi. È stato in un contesto così desolante che alla fine della guerra fredda l’economia dello sviluppo ha imboccato una nuova direzione universalista. Il rapporto della commissione Brundtland del 1987 portò al centro del dibattito l’idea di sviluppo sostenibile, promettendo una nuova sintesi di valori fondata su un interesse comune per l’equilibrio ecologico.

L’impostazione fu poi approfondita al vertice della Terra di Rio de Janeiro nel 1992 e al vertice mondiale sullo sviluppo sociale di Copenaghen del 1995 in sei obiettivi internazionali di sviluppo monitorabili, che univano aspirazioni materiali fondamentali – dimezzare la povertà, garantire l’istruzione primaria a tutti, ridurre la mortalità infantile e materna – a finalità sociali più ampie. Successivamente l’Onu ha formalizzato le sue priorità nella lotta alla povertà negli otto Obiettivi di sviluppo del millennio (Osm), che, insieme al forte impegno dei filantropi privati nelle iniziative di sanità pubblica e ai programmi di riduzione del debito, avrebbero dovuto offrire ai paesi poveri un’opportunità per voltare pagina nell’era della globalizzazione.

In Africa centrale la situazione è rimasta drammatica. In Asia, invece, una volta assorbito lo shock della crisi finanziaria del 1997, alcuni grandi paesi – in particolare il Bangladesh, la Cina, l’India e l’Indonesia – hanno fatto progressi enormi. Questo, a sua volta, ha alimentato un boom delle materie prime, che ha portato a un miglioramento significativo delle condizioni di vita della nuova classe media latinoamericana.

Impegno universale

Sull’onda di quella straordinaria fase di “crescita globale” è cominciata la stesura degli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Negli anni 2010 l’impegno è diventato universale: nessuno doveva essere lasciato indietro. A dettare le priorità doveva essere l’ambiente, non più l’imperialismo o le rivalità geopolitiche.

Gli Oss sono nati quindi come evoluzione degli obiettivi del millennio. Con il passare del tempo hanno inglobato una serie di traguardi e ambizioni tecnocratiche, sintetizzati in 17 obiettivi e 169 traguardi, a volte criticati per il loro carattere eccessivamente idealistico, se non utopico. L’auspicio era che la politica e le rivalità geopolitiche potessero essere superate grazie a una griglia articolata di obiettivi e infografiche colorate. Ancora oggi i sostenitori più entusiasti indossano con orgoglio una spilla a forma di ruota multicolore, simbolo dell’adesione al programma.

Con tre patti globali nel 2015 – il piano d’azione di Addis Abeba sulla finanza, il voto all’Onu sugli Oss e l’accordo di Parigi sul clima – si è messo in moto un piccolo esercito di economisti. Hanno convenuto sul fatto che per un futuro sostenibile e prospero ogni anno sarebbero serviti tra i cinquemila e i settemila miliardi di dollari (il 5-7 per cento del pil globale) di investimenti. Di questa somma, quattromila miliardi di spese aggiuntive dovevano servire per i paesi in via di sviluppo. La chiave per un futuro migliore era un’esplosione gigantesca degli investimenti.

A prima vista, questa forma di pianificazione su vasta scala sembrava un ritorno ai paradigmi di sviluppo economico a guida statale degli anni cinquanta. Dopo decenni di austerità neoliberista, però, non c’era alcuna volontà di riportare in vita il modello statalista. A fare da ponte è intervenuta una nuova specializzazione economica: la finanza per lo sviluppo. Il suo principio cardine, noto come blended finance (finanza mista), prevede che i fondi pubblici, invece di sostenere da soli l’intero peso dello sviluppo, siano impiegati per ridurre il rischio degli investimenti privati, trasformando così miliardi di aiuti governativi in migliaia di miliardi di investimenti privati. Questo slancio di ottimismo ha raggiunto l’apice alla conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico del 2021 a Glasgow, in Scozia, dove le istituzioni finanziarie hanno ventilato la possibilità di mobilitare miliardi di fondi pubblici per sbloccare più di 130mila miliardi di investimenti privati nell’energia pulita e nello sviluppo sostenibile.

Con il senno di poi gli Oss, più che una nuova alba, sembrano l’ultimo sussulto di una fantasia occidentale da “fine della storia”. Altro che miliardi che sbloccano migliaia di miliardi: il bilancio della finanza mista è desolante. Raramente si riesce a mobilitare più di pochi centesimi per ogni dollaro pubblico investito. Nei settori chiave dell’innovazione, come le energie verdi e l’intelligenza artificiale, il mondo in via di sviluppo, invece di recuperare terreno, è rimasto ancora più indietro.

È un bilancio deludente, soprattutto se paragonato all’ambizione degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Ma quanto erano fondati? Qualcuno, nel 2015, si era fermato a riflettere su come sarebbe stato il mondo se fossero stati realizzati? Mettiamo, per esempio, che il Brasile fosse diventato una potenza economica e tecnologica come il Giappone. O che l’Etiopia o la Nigeria avessero raggiunto i livelli della Turchia in termini di amministrazione dello stato e pil pro capite. Scenari simili suscitano indifferenza o scetticismo, in parte perché sembrano poco plausibili, ma anche perché fanno emergere questioni scomode. Se il Messico avesse il pil pro capite del Canada, gli Stati Uniti non ne sarebbero destabilizzati? Ecco perché è più facile considerare gli Oss un’aspirazione più che un obiettivo concreto.

Il secolo africano che è alle porte ripropone lo stesso dilemma. Le previsioni demografiche per i prossimi decenni parlano chiaro: in molte aree del continente la densità abitativa è destinata a raggiungere i livelli europei. La quota della popolazione mondiale originaria dell’Africa supererà il 25 per cento. Entro il 2050 il 40 per cento delle nascite globali sarà in Africa, e la percentuale di giovani lavoratori sarà ancora più alta. Eppure, il resto del mondo non ha idea di cosa possa significare un futuro in cui città come Lagos o Dar es Salaam diventeranno poli di innovazione tecnologica. La portata di questa sfida è suggerita dagli esempi dell’Etiopia, degli huthi nello Yemen e del Ruanda, dove lo sviluppo ha prodotto un potere reale: la capacità, nel bene e nel male, di proiettare forza, creare una narrazione e portare avanti progetti strategici nazionali.

Abidjan, Costa d’Avorio, 5 febbraio 2024 (João Silva, The New York Times/Contrasto)

E come mostrano questi esempi, oltre alla scala relativa, contano i livelli assoluti e le soglie. Il Ruanda è lontano da una prosperità diffusa, ma può già contare su un esercito efficiente. Gli huthi, pur non avendo il monopolio del potere in Yemen, riescono a lanciare missili contro Israele, a ostacolare il traffico marittimo internazionale e a ingaggiare schermaglie con le marine militari dei paesi ricchi.

Lo sviluppo è, per sua natura, una questione politica. Un mondo più sviluppato è, per definizione, più multipolare e meno controllabile. Date le idiosincrasie dell’amministrazione Trump, gli effetti di questa tendenza generale si colgono con più chiarezza nelle reazioni europee. La Francia, la Germania e il Regno Unito si presentano come custodi di un ordine internazionale fondato sulle regole. Tutte giurano fedeltà agli Oss e non si farebbero mai sorprendere a votare contro la pace e la speranza all’Onu. Eppure, proprio come gli Stati Uniti, stanno tagliando i bilanci destinati agli aiuti. Il motivo è l’Ucraina. Se la priorità è la sicurezza nazionale, allora missili e carri armati sono investimenti strategici più efficaci rispetto allo sforzo di sviluppare il Sahel. È finita l’epoca di un’agenda per lo sviluppo politicamente neutra e universalmente condivisa.

Questo non significa che il caos sia inevitabile. Come ricorda il teorico delle relazioni internazionali Alexander Wendt, “l’anarchia è ciò che gli stati decidono di farne”. Ed è proprio questo a rendere il comportamento aggressivo di Trump non solo imbarazzante e inopportuno, ma anche pericoloso. Gli Oss erano ipocriti, ma smantellarli senza proporre niente in cambio non è realismo, è nichilismo.

Il loro tramonto dovrebbe essere motivo di rimpianto. Alla base c’era un’idea straordinaria. Insieme all’accordo di Parigi, hanno rappresentato l’apice di una certa concezione di universalismo. Non dobbiamo cedere al facile cinismo di chi si rallegra non solo della fine degli Oss, ma anche di quella dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid), liquidandola come semplice strumento di potere statunitense. Se la più vasta operazione umanitaria del mondo è diventata un veicolo efficace dell’influenza di Washington non è solo per la propaganda, ma è perché ha salvato delle vite.

Non viviamo in un mondo in cui il futuro si definisce in termini di norme universali

Un approccio realistico all’era del dopo Trump non può partire dal rifiuto dell’idea di sviluppo, ma deve distinguere tra priorità diverse. Salvare vite e promuovere lo sviluppo non sono la stessa cosa. Confondere i due concetti significa tornare inconsciamente all’universalismo blando e anonimo degli Oss, un’epoca in cui esistevano obiettivi ufficiali per tutto e per tutti, dai bambini denutriti all’accesso alla rete 5g. La categoria statistica degli aiuti esteri allo sviluppo comprende qualsiasi cosa: dal sostegno ai rifugiati ucraini alla costruzione di infrastrutture agli interventi d’emergenza in Sudan.

L’ambito in cui gli aiuti esteri sono più essenziali – e in cui i tagli rischiano di costare più vite – è quello delle crisi dei rifugiati e delle emergenze sanitarie croniche in stati falliti e in situazioni di povertà estrema, non quello dello “sviluppo” in sé. Il fatto stesso che questi aiuti siano necessari è il segno di un fallimento più ampio. I rifugiati ucraini in Germania e quelli sudanesi in Ciad si trovano in situazioni molto diverse. Affrontare la questione dello sviluppo a lungo termine sia in Sudan sia in Ciad è importante, e sicuramente la Germania ha molta strada da fare per integrare i migranti ucraini nel suo mercato del lavoro, ma la priorità immediata è salvare vite umane.

Come mostrano i dati della Banca mondiale, metà delle persone più indigenti si concentra in stati fragili e segnati dai conflitti come l’Afghanistan e la Birmania, ma soprattutto in Siria, in Yemen e nell’Africa subsahariana. La chiave è garantire aiuti umanitari di base e, quando possibile, operazioni di mantenimento della pace ben finanziate e organizzate. Lo scopo non è quello ambizioso e a lungo termine dello sviluppo, ma un minimo di ordine civile e la prevenzione di carestie ed epidemie.

Anche se non rientra nella definizione canonica di sviluppo, è un compito legittimo e fondamentale per l’azione internazionale. Gli interventi per le aree colpite dalle crisi più gravi sono cronicamente sottofinanziati, e qualsiasi paese ricco animato di buona volontà potrebbe farsi carico della situazione. Come ha dimostrato il caso della Siria, un sistema semplice ma ben organizzato di campi profughi come quelli nell’est della Turchia può salvare milioni di persone dalla povertà estrema e contenere il rischio di ulteriori destabilizzazioni.

Un’osservazione banale

Quando si parla di sviluppo in senso stretto, è evidente che non esiste una formula universale per il successo. Investire miliardi non basta. Ma questa è un’osservazione banale. Lo sviluppo non è una disciplina tecnica come l’ingegneria o l’odontoiatria, anche se comporta la costruzione di ponti e la cura dei denti. Nei casi in cui ha avuto effetti profondi, è stato una trasformazione sociale deliberata, un processo storico su vasta scala. Più che con le formule, va letto alla luce di una storia di sviluppi intrecciati e non omogenei. Un’iniezione di capitali in un regime mosso da un senso di missione e che ha l’appoggio di gran parte delle forze politiche e sociali – come nel caso del Ruanda dopo il genocidio – può portare benefici reali. Al contrario, una pioggia di prestiti vincolati distribuiti su progetti isolati in un contesto di corruzione e assenza di responsabilità finirà prevedibilmente per alimentare solo l’industria degli aiuti e arricchire individui più o meno spregiudicati. Ciò che conta è scegliere con attenzione i partner e costruire basi solide per un progresso autosostenibile, invece di alimentare nuove forme di dipendenza. Uno stato competente è in grado di gestire gli aiuti esterni senza sviluppare dipendenze patologiche, e saperli mettere a frutto ne rafforza la capacità d’azione.

Per individuare gli stati capaci di avviare processi di sviluppo progressivo servono una conoscenza diretta del contesto, impegno a lungo termine, capacità di giudizio e la volontà di affrontare le conseguenze di scelte difficili. L’assistenza esterna può integrare, ma non sostituire, il lavoro di mobilitazione delle risorse interne. L’innovazione tecnologica può aumentare la produttività; i capitali stranieri possono aiutare a migliorare l’equilibrio tra investimenti e consumi. Ma in ultima analisi, ogni stato deve saper mobilitare la propria forza lavoro e dare priorità alla crescita a lungo termine rispetto ai bisogni immediati. L’indebitamento è una via possibile per trovare i fondi necessari, ma perché sia sostenibile serve uno stato capace non solo di spendere, ma anche di riscuotere le tasse.

Al di là dei fondamentali economici, una cosa è certa: in mancanza di un impegno sostanziale non ci si possono aspettare risultati significativi. Troppo spesso gli aiuti occidentali somigliano a una goccia nel mare. E questo vale ancor di più dove il confine tra l’intervento umanitario e lo sviluppo autosufficiente è sfumato e segnato dalle violenze.

Negli ultimi anni ci si è rammaricati per come l’occidente abbia “perso il Sahel”. A partire dal 2017 i paesi europei hanno contribuito a più di mille progetti in questa regione, dove vivevano cento milioni di persone in situazione di povertà estrema, con indici di sviluppo umano altrettanto drammatici. Il Niger è stato a lungo considerato un baluardo dell’influenza occidentale. Ma, prima del colpo di stato del 2023 che ha rovesciato il governo di Mohamed Bazoum, quasi due terzi dei nigerini non sapevano leggere. Il paese aveva un disperato bisogno di investimenti nell’istruzione, nell’irrigazione e nei servizi sanitari di base. In effetti gli aiuti sono arrivati. Ma a quanto ammontavano? Nei primi anni 2020, prima del golpe, il Niger riceveva quasi 1,8 miliardi di dollari all’anno, a fronte di una popolazione di 25 milioni di persone. Nel 2021 era l’equivalente di 71 dollari pro capite, cioè 1,37 dollari alla settimana, di cui sette centesimi per l’istruzione, 15 per la sanità e 30 per l’industria e le infrastrutture. Ventisei centesimi erano destinati ai beni essenziali per i più poveri. Cosa ci si può aspettare da 1,37 dollari alla settimana, suddivisi tra le necessità più urgenti e gli investimenti a lungo termine?

È inutile attendersi risultati da investimenti così scarsi. Né si può invocare l’inefficacia degli aiuti come pretesto per tagliare i fondi, quando non si è provato a farli funzionare.

Per moltiplicare i fondi pubblici, il modello della finanza mista ha puntato sulle partnership tra pubblico e privato, il che ci porta alla terza dimensione degli aiuti e dello sviluppo: quella che potremmo definire l’economia politica globale. Se si prestano grandi somme di denaro a paesi a basso reddito e ad alto rischio, è normale aspettarsi che alcuni crediti vadano perduti. È per questo che si parla di rischio elevato. Ed è per questo che i creditori possono imporre tassi d’interesse alti e chiedere garanzie o strumenti di riduzione del rischio agli investitori pubblici e alle agenzie per lo sviluppo del nord del mondo. Se le cose vanno male, i creditori devono accettare le perdite e andare avanti. È un rischio che hanno scelto di assumersi.

Dipendenti dagli Stati Uniti
Aiuti statunitensi per la salute in rapporto alla spesa sanitaria del governo, 2022-2023, percentuale (center for global development, the economist)

Eppure, alla prova dei fatti, i processi di ristrutturazione del debito raramente funzionano così. I creditori privati danno battaglia fino all’ultimo centesimo, forti del sostegno dei tribunali statunitensi e britannici. I paesi debitori rinunciano a difendere la propria posizione, temendo pesanti declassamenti. E le istituzioni finanziarie come il Fondo monetario internazionale finiscono per offrire, di fatto, meccanismi di salvataggio ai creditori dei paesi ricchi, mettendo a disposizione strumenti finanziari compensativi che permettono agli investitori privati di minimizzare le perdite. Nel frattempo, i centri finanziari occidentali favoriscono il saccheggio, agevolando la fuga di capitali e garantendo l’anonimato bancario.

Tutti questi temi sono da tempo al centro del dibattito sullo sviluppo: accelerare i processi di ristrutturazione del debito, scegliere partner competenti, promuovere la mobilitazione delle risorse interne e costruire sistemi fiscali nazionali equi ed efficaci, capaci di chiudere le falle che permettono la fuga di capitali. Non si tratta di invocare un nuovo “ordine mondiale” né di proporre una copia degli Oss.

Serve la volontà di intervenire con azioni di “riequilibrio”: rivedere, per esempio, il modo in cui i tribunali britannici vicini alla city di Londra sono usati per tutelare gli interessi dei creditori; affrontare le tensioni che legano le trattative sul debito alle tasse in Kenya; riformare le politiche di prezzo del cacao che penalizzano i piccoli agricoltori in Ghana e favoriscono il contrabbando e la corruzione.

Un calo drastico
Assistenza allo sviluppo in Africa subsahariana fornita dai paesi dell’Ocse, miliardi di dollari. *Proiezioni basate sui tagli alla Usaid nel 2025  (center for global development, OCSE, the economist)

Se gli Stati Uniti decidono di defilarsi dagli aiuti destinati a milioni di persone che rischiano di contrarre l’hiv e la malaria, nulla impedisce agli altri paesi del G20 o a stati più piccoli ma con grandi risorse, come la Norvegia o il Qatar, d’intervenire per colmare il vuoto. E nulla gli impedisce di cercare nuovi partner con cui collaborare. Questo significa, prima di tutto, affrontare la questione della Cina, che si è affermata come paese creditore e come una potenza dello sviluppo. Tra il 2016 e il 2017 i prestiti erogati nell’ambito della Nuova via della seta hanno uguagliato quelli della Banca mondiale. Anche se l’iniziativa è stata ridimensionata, la direzione strategica della Cina resta chiara. Pechino considera la trasformazione materiale come la chiave della legittimità e della stabilità.

L’Iniziativa per lo sviluppo globale promossa da Xi è stata la risposta cinese agli Oss. Non va letta come un rifiuto o una denuncia degli obiettivi occidentali, ma come una riscrittura volta a concentrare l’attenzione su otto ambiti chiave: riduzione della povertà, sicurezza alimentare, risposta alle pandemie e vaccini, finanziamento dello sviluppo, cambiamento climatico e sviluppo sostenibile, industrializzazione, economia digitale e connettività nell’era digitale, il tutto nel segno di “azioni orientate ai risultati”.

La Cina spera (e si aspetta) che la realizzazione di questa agenda contribuisca a costruire relazioni amichevoli? Certamente. È un modo per affermare il suo potere al livello internazionale? Senza dubbio. Pechino ha interesse a negoziare su diritti umani ed elezioni? No. Preferirebbe evitare del tutto questi temi? Sì.

Questi per Xi sono “princìpi irrinunciabili”, e intestardirsi su differenze così evidenti non porta grandi vantaggi ai progressisti occidentali. Collaborare con la Cina non significa ottenere tutto ciò che si desidera. Invece di inseguire un improbabile “sviluppo tutto incluso”, dobbiamo chiarire quali sono i nostri princìpi irrinunciabili.

Una nuova concezione

Non viviamo in un mondo in cui il futuro si definisce in termini di norme universali, target colorati o infografiche accattivanti. L’imperativo più urgente che guida lo sviluppo individuale e collettivo non è la ricerca dei diritti, ma la volontà di potere: potere sulle risorse, potere d’acquisto, capacità di resistere all’influenza altrui, di garantire la propria sicurezza e, se possibile, di affermare una propria zona di controllo. Lo sviluppo, in questo senso, non consiste nel riempire caselle o inseguire traguardi astratti: è un processo politico e geopolitico.

La visione fredda e burocratica del 2015 non corrisponde più al mondo in cui viviamo. Respingendo l’agenda comune dell’Onu in nome di una sovranità intransigente, gli Stati Uniti hanno scelto di adottare una postura polemica. Al confronto la combinazione cinese di realpolitik, ideologia e interesse nazionale appare più razionale ed equilibrata, anche perché sostenuta da un primato ineguagliato in materia di sviluppo e da risorse imponenti.

Il liberalismo occidentale può anche storcere il naso, ma fingere che non esistano differenze tra le due superpotenze è sciocco. Se il resto dell’occidente vuole competere e allo stesso tempo collaborare con la Cina sulle grandi questioni dello sviluppo globale, dovrà elaborare un’alternativa più concreta e realistica sia agli Oss sia all’atavismo trumpiano. ◆ fas

Adam Tooze è un storico britannico. Insegna alla Columbia university, negli Stati Uniti.

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Questo articolo è uscito sul numero 1643 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati