Il fatto che l’Iran non compaia più sulle prime pagine dei giornali a causa delle esecuzioni arbitrarie non significa che nel paese tutto sia tornato alla normalità. Al contrario, le sofferenze degli iraniani aumentano, ma è un male infido, che li logora senza fare rumore. Hanno così fame, così poche possibilità per curarsi e prospettive così misere che alcuni sono pronti a vendere un organo pur di sopravvivere, mentre altri si tolgono la vita. L’inflazione ha raggiunto livelli record: 170 per cento secondo gli esperti, anche se la cifra ufficiale è attorno al 50 per cento. Le sanzioni internazionali non sono l’unica causa del disastro: questo bilancio catastrofico sembra dovuto soprattutto alla cattiva gestione e alla corruzione dei dirigenti.

In un momento in cui le proteste di piazza hanno cominciato a diminuire (o quanto meno a dare questa impressione in modo da recuperare le forze), la situazione potrebbe provocare una nuova esplosione di rabbia. L’assenza di libertà, sommata alla fame, potrebbe convincere la popolazione che non ha più nulla da perdere e che rischiare la vita tra le pallottole è meglio che spegnersi nell’indifferenza generale. Nel 2019 era stato l’aumento dei prezzi della benzina a innescare le rivolte, subito represse brutalmente dalle autorità.

Di recente è cominciato un dialogo informale con gli Stati Uniti per cercare di allentare la morsa delle sanzioni. Certo, ci sono moltissime cose da negoziare con l’Iran, a cominciare dalla rinuncia allo sviluppo delle armi atomiche e dall’interruzione degli aiuti militari alla Russia. Ma è difficile immaginare che gli occidentali possano ridurre la pressione finanziaria su Teheran senza pretendere almeno lo stop immediato alle esecuzioni dei manifestanti e uno sforzo per rendere più accessibili i prodotti di prima necessità. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1517 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati