Quando penso a Vladimir Putin e alla sua cerchia più ristretta, mi viene in mente la descrizione che John Maynard Keynes fece di Georges Clemenceau, primo ministro francese durante la prima guerra mondiale, un individuo che aveva perso ogni illusione tranne una: la Francia. Qualcosa di simile si potrebbe dire a proposito dell’élite al governo in Russia. E contribuirebbe a spiegare la scommessa collettiva, e spaventosamente rischiosa, dell’invasione dell’Ucraina. Per quanto sia spietata, avida e cinica, questa élite crede fermamente nell’idea della grandezza russa.

I mezzi d’informazione occidentali usano il termine “oligarca” per descrivere tutti i miliardari russi, compresi quelli che ormai vivono in occidente. Il termine si è diffuso negli anni novanta e oggi è spesso usato a sproposito. In effetti ai tempi del presidente Boris Eltsin lo stato era controllato, e sistematicamente saccheggiato, da un piccolo gruppo di ricchi uomini d’affari che agivano d’accordo con alti funzionari pubblici. Questo gruppo, però, fu liquidato da Putin durante i suoi primi anni al potere.

Tre dei sette principali oligarchi di quegli anni sfidarono il presidente sul piano politico. Boris Berezovskij e Vladimir Gusinskij furono costretti a emigrare, mentre il terzo, Michail Chodorkovskij, fu messo in prigione e poi prese la strada dell’esilio. Agli altri quattro, e ai loro numerosi colleghi meno importanti, fu concesso di continuare a fare affari in Russia in cambio di una totale sottomissione a Putin nelle questioni pubbliche. Dopo aver dato il via all’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio, Putin ha incontrato in collegamento video i principali imprenditori russi: era evidente chi dava gli ordini.

Ad assoggettare gli oligarchi è stato il vecchio Kgb, riorganizzato nei vari servizi di sicurezza che ne hanno preso il posto. Putin stesso proviene dal Kgb. E dai servizi d’intelligence o dalle strutture statali a loro collegate (ma non dalle forze armate) arriva anche la stragrande maggioranza dell’attuale classe dirigente. Questo gruppo si è mantenuto stabile e omogeneo durante gli anni di Putin, rimanendogli vicino anche personalmente. Sotto la sua guida, questi uomini hanno derubato il paese (mantenendo però la maggior parte della loro ricchezza all’interno della Russia, a differenza degli oligarchi) e hanno partecipato ai crimini del presidente o li hanno appoggiati, fino all’invasione dell’Ucraina. Hanno fatto da megafono alla violenta propaganda di Putin contro l’Ucraina e alle sue denunce della decadenza occidentale.

Mentre la Russia sprofonda nel pantano militare e nella crisi economica, è fondamentale chiedersi se Putin – nel caso in cui la guerra non dovesse concludersi rapidamente con un accordo di pace – possa essere rovesciato (o persuaso a dimettersi) dalle stesse élite che finora lo hanno sostenuto. Per valutare le reali possibilità di quest’ipotesi, è necessario capire la natura dell’establishment russo e soprattutto della cerchia più vicina al presidente.

Veri cekisti

Per spiegare quanto era grave la situazione in Russia negli anni novanta, e per identificarsi con i cittadini che allora hanno sofferto, Putin ha raccontato che a un certo punto, quando era ancora tenente colonnello del Kgb, si era ridotto a fare il tassista per arrotondare lo stipendio. È abbastanza plausibile. Negli anni novanta ero il corrispondente del Times dalla Russia e dai paesi dell’ex Unione Sovietica. Quando andavo nelle repubbliche autonome del Caucaso del nord il mio autista era un ex maggiore del Kgb. “Pensavamo di essere la spina dorsale dell’Unione Sovietica”, mi disse una volta con amarezza. “Ci guardi ora. Dei veri cekisti!”.

Il termine oligarca si è diffuso negli anni novanta, e spesso è usato a sproposito

“Vero cekista” (nastojaščij čekist) era un’espressione della propaganda sovietica per indicare le qualità che si ritenevano tipiche della Čeka, la prima polizia segreta sovietica: disciplina, coraggio, impegno ideologico e onestà. I cekisti erano i protagonisti di molte barzellette, ma non c’è dubbio che Putin e i suoi fedelissimi continuino a riconoscersi in loro. Hanno accumulato una ricchezza e un potere immensi, ma continuano a coltivare un forte risentimento per il modo in cui l’Unione Sovietica e la Russia sono crollate. E, com’è noto, un grande potere misto a un grande risentimento è una delle miscele più pericolose che esistano, in politica interna ed estera.

A mano a mano che l’autoritarismo di Putin cresceva, il potere reale (al contrario della ricchezza) diventava sempre più dipendente dall’accesso diretto al presidente. E, specialmente da quando la pandemia ha portato Putin a vivere in un quasi totale isolamento, il numero delle persone che hanno questo privilegio si è ridotto a pochi nomi.

Nei suoi primi anni al potere Putin poteva essere considerato come il primo tra i pari in un gruppo formato da amici e colleghi. Oggi non è più così. Anche i siloviki, gli uomini di potere che si sono fatti le ossa nei servizi di sicurezza, sono stati pubblicamente ridotti a servitori del dittatore. Lo dimostra chiaramente l’umiliazione che Putin ha inflitto al suo capo dell’intelligence internazionale, Sergej Naryškin, durante la riunione del consiglio di sicurezza nazionale trasmessa in tv alla vigilia della guerra. Un comportamento così sprezzante verso i suoi collaboratori più stretti potrebbe rivelarsi un boomerang per Putin, com’è successo ad altri autocrati in passato.

La cerchia più ristretta del presidente comprende quindi, oltre a Naryškin, il ministro della difesa Sergej Šoigu (ex ministro delle emergenze e non militare di carriera); Nikolaj Patrušev, ex capo dell’intelligence interna e ora segretario del consiglio di sicurezza della Federazione Russa; e Igor Sečin, ex vice primo ministro, nominato da Putin alla guida della compagnia petrolifera Rosneft. Ammesso che abbiano mai fatto parte di questa cerchia, gli alti funzionari economici con inclinazioni “patriottico-liberali” oggi ne sono esclusi. Tra i siloviki e le élite in senso più ampio va fatta una netta distinzione. L’establishment russo è composto da grandi consorterie di uomini d’affari, alti funzionari, editori, generali e intellettuali nazionalisti, e da un gruppo molto eterogeneo di notabili locali e faccendieri legati alla dirigenza del partito di governo, Russia unita.

All’interno di questo gruppo dirigente il disagio per l’invasione dell’Ucraina e per le sue conseguenze è già evidente, in particolare tra le élite economiche, molto legate all’occidente e consapevoli delle conseguenze catastrofiche che le sanzioni avranno sulla società russa. Roman Abramovič ha provato a vendere la squadra di calcio inglese del Chelsea prima che gli congelassero i beni. Mikhail Fridman, presidente di Alfa Group (già colpito in passato dalle sanzioni occidentali) e tra gli oligarchi della vecchia scuola, ha chiesto la fine del conflitto, come ha fatto anche il magnate dell’alluminio Oleg Deripaska.

Se non ci sarà un accordo di pace, se la guerra si trascinerà in un sanguinoso stallo, se l’economia andrà in crisi e i russi vedranno peggiorare bruscamente il loro tenore di vita, allora le proteste, la repressione e i tentativi dello stato di sottomettere le aziende aumenteranno radicalmente, così come l’insoddisfazione delle classi dirigenti. Alle quali, però, mancano quelle istituzioni e quell’identità collettiva che permetterebbero di allearsi più facilmente per rovesciare Putin. La duma, la camera bassa del parlamento russo, mi è stata descritta da un amico russo come “un mucchio di concime pieno di verdure marce assortite”. L’immagine è una forzatura – nel parlamento di Mosca ci sono anche persone per bene – ma sarebbe un’illusione pensare che da loro possa nascere qualche tipo di leadership politica.

L’esercito, che in altre parti del mondo sarebbe il logico protagonista di un colpo di stato, è stato depoliticizzato in cambio di enormi finanziamenti. Inoltre, oggi per le forze armate la priorità è ottenere una vittoria in Ucraina, o almeno qualcosa che le somigli.

D’altro canto la spietata epurazione di Putin contro i ranghi più alti dell’esercito, insieme all’apparente incompetenza con cui è stata gestita l’invasione dell’Ucraina, potrebbe far crescere il malcontento anche tra gli ufficiali più in basso nella gerarchia. Insomma, se è vero che l’esercito non si muoverà contro Putin, è altrettanto difficile che possa correre in suo aiuto.

Le pressioni più efficaci sui collaboratori più stretti di Putin potrebbero arrivare dai loro stessi figli. Se infatti i genitori sono quasi tutti cresciuti nell’Unione Sovietica, i figli e le figlie degli oligarchi hanno studiato e vissuto soprattutto in occidente. E molti sono d’accordo, almeno in privato, con Elizaveta Peskova (figlia del portavoce di Putin, Dmitrij Peskov), che su Instagram ha protestato contro la guerra. I siloviki, tuttavia, sono così strettamente legati a Putin e alla guerra che, se ci fosse un cambio di regime, molti dovrebbero lasciare il potere, magari in cambio della promessa di non essere arrestati e di poter conservare le ricchezze accumulate (la stessa garanzia che Putin concesse al suo predecessore Boris Eltsin).

Questa svolta, però, sembra ancora lontana. I siloviki sono considerati profondamente corrotti. Ma la loro corruzione ha caratteristiche specifiche. Il nazionalismo è la loro ideologia e la giustificazione della loro immensa ricchezza. Una volta ho fatto una chiacchierata con un ex alto funzionario sovietico, rimasto in contatto con i suoi vecchi amici nella cerchia putiniana. “Ai tempi dell’Unione Sovietica”, mi ha detto, “eravamo felici con una dacia, una tv a colori, l’accesso ai negozi speciali, dove c’erano i prodotti occidentali, e le vacanze a Soči. Stavamo bene, e ci confrontavamo solo con il resto della popolazione, non con le élite occidentali. Oggi ai siloviki piacciono i lussi occidentali, ma non so se questa ricchezza li renda più felici o se sia proprio il denaro in sé la cosa più importante. Penso che uno dei motivi per cui rubano tanto è che, considerandosi dei rappresentanti dello stato, pensano che essere più poveri degli uomini d’affari sia un’umiliazione, una sorta di insulto allo stato”.

Putin e il ministro della difesa Sergej Šojgu a Mosca, il 25 luglio 2021 (Mikhail Svetlov, Getty Images)

Potenza dimezzata

I siloviki sono naturalmente attaccati all’idea dell’ordine pubblico, che garantisce il loro potere e le loro proprietà, ma che è anche essenziale per non far ricadere il paese nel caos della transizione postcomunista, nella rivoluzione russa e nella guerra civile. Il disastro degli anni novanta, a loro avviso, è legato non solo al declino dello stato e dell’economia, ma anche a un’anarchia morale disastrosa per la società. E la loro reazione non è stata diversa da quella della parte più conservatrice della società statunitense negli anni sessanta o di quella tedesca negli anni venti.

Sotto questo aspetto Putin e i siloviki hanno l’appoggio di gran parte della popolazione russa, che continua a coltivare amarezza e risentimento, sia per il modo in cui è stata tradita e saccheggiata negli anni novanta sia per quello che percepisce come il disprezzo delle élite culturali liberali di Mosca e San Pietroburgo verso il resto dei russi.

A metà degli anni novanta mi fu chiesto di tenere un discorso durante una conferenza organizzata da una banca occidentale per gli investitori esteri e russi. La cena era in un celebre locale notturno di Mosca. Quando il tempo a mia disposizione stava per finire, nessuno mi fece capire che dovevo farmi da parte: partì una versione jazz di una canzone patriottica sovietica e sul palco apparve un uomo in costume da orso che sventolava simboli militari russi e guidava una fila di ballerine vestite con una versione molto succinta del costume tradizionale nazionale.

Di fronte a una simile concorrenza mi ritirai perplesso al mio tavolo. Subito dopo, però, ebbi una sensazione inquietante. Mi tornò in mente una scena del film del 1972 Cabaret, ambientata in un locale notturno della Berlino di Weimar, poco prima dell’ascesa al potere dei nazisti: alcuni ballerini eseguono una parodia di una parata di fronte a un pubblico sorridente, al ritmo di una famosa marcia militare tedesca. Mi chiesi se anche la Russia prima o poi avrebbe dovuto pagare un conto per tutta quell’allegria. Temo che l’Ucraina, e i soldati russi, lo stiano pagando ora.

Uno dei peggiori effetti di questa guerra sarà l’isolamento della Russia dall’occidente. Tuttavia credo che Putin e i siloviki accoglieranno con favore quest’isolamento. Sono sempre più entusiasti del modello cinese: un’economia molto dinamica, una società disciplinata e una superpotenza militare governata con il pugno di ferro da un’élite ereditaria che coniuga ricchezza e patriottismo, convinta che la Cina sia una civiltà separata e superiore.

Forse i siloviki vogliono che l’occidente spinga Mosca nelle braccia della Cina, nonostante il rischio che la Russia si trasformi in una colonia di Pechino. Credono che la guerra in Ucraina cementerà il sentimento patriottico in Russia e gli permetterà d’inasprire la repressione in nome del sostegno allo sforzo bellico. Questa repressione è già cominciata con la chiusura degli ultimi giornali, siti e tv indipendenti, e con leggi che puniscono come tradimento qualsiasi critica alla guerra.

Ma soprattutto, a causa di profonde ragioni storiche, culturali, professionali e personali, i siloviki e le élite del paese sono completamente e irrevocabilmente devote all’idea della grande potenza russa. Chi non crede a quest’idea, non può far parte della classe dirigente. Così come chi non crede nel primato mondiale degli Stati Uniti non può appartenere all’establish­ment militare e di politica estera statunitense.

La posizione dell’Ucraina in questa dottrina è stata ben riassunta dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Zbigniew Brzezinski: “Senza l’Ucraina, la Russia non è più un impero eurasiatico”. L’élite russa è d’accordo. E, da quindici anni, è anche convinta che gli Stati Uniti vogliano ridurre Mosca al rango di una potenza di terza categoria. Più recentemente, invece, ha capito che Francia e Germania non si opporranno a Washington. “A occidente abbiamo solo nemici”, mi ha detto un intellettuale dell’establishment russo nel 2019.

Secondo il Cremlino, il nazionalismo ucraino è un elemento chiave della strategia antirussa di Washington. Una volta, durante una conversazione con delle persone della classe dirigente russa, ho suggerito che forse per Mosca la cosa migliore sarebbe lasciare andare l’Ucraina per la sua strada. Alcune di loro, per altri versi calme e ragionevoli, hanno cominciato a ringhiare. Pur di non rinunciare all’Ucraina queste persone sembrano pronte a combattere senza pietà e a lungo. ◆ ff

Anatol Lieven è un giornalista e analista politico britannico. Insegna al King’s college di Londra, e negli anni novanta è stato corrispondente di The Times a Mosca.

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Questo articolo è uscito sul numero 1452 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati