The wire era tra la quarta e la quinta stagione, Mad men era appena cominciata. I Soprano stava per finire, Roma si era appena conclusa dopo ventidue episodi. Gli spettatori erano ancora in lutto per la fine di Six feet under e della serie western Deadwood. Era il 2007 e poteva capitarti, a cena con gli amici, di finire impelagato in dibattiti su come i ragazzini di Baltimora potessero diventare spacciatori o su come il successo di un pubblicitario newyorchese dimostrasse quanto fosse importante sfuggire al proprio passato. Proseguendo nella conversazione, ci si sarebbe potuti chiedere se fosse possibile leggere la famiglia di Tony Soprano come un incubo seriale di stampo freudiano o se l’agenzia di pompe funebri della famiglia Fisher in Six feet under fosse di fatto la messa in scena di un trattato sul significato della felicità. Nel decennio successivo l’idea che una serie tv potesse cogliere lo spirito dell’epoca è diventata ovvia. Del resto a distillare la nullità paranoica dell’etica trumpiana non è stato un grande romanzo o una grande opera teatrale, ma la serie Succession, una storia di corruzione dinastica che è andata in onda meno di due anni dopo l’inizio della presidenza di Trump. Tutte queste serie sono state prodotte dalla Home Box Office (Hbo) tranne Mad men, creata da Matthew Weiner, che aveva appena lasciato l’azienda per passare alla Amc.

Si può dire che la televisione è sempre stata brava a descrivere gli Stati Uniti a se stessi. Nel 1958, l’anno in cui è stata fondata la Nasa, sette dei dieci programmi tv più importanti del paese erano western ossessionati dai problemi dei pionieri; a metà degli anni ottanta, quando Ronald Reagan era sulla cresta dell’onda, quattro serie su dieci, con in testa Dallas e Dynasty, parlavano di faide tra famiglie ricche. La tv non aveva ancora sostituito il cinema. Le serie dovevano molto alla radio, al melodramma bidimensionale, ai luoghi comuni e ai finali pieni di suspense, con personaggi che non somigliavano a persone del mondo reale (era così anche la serie Friends, degli anni novanta: nessun gruppo di giovani è mai vissuto in un appartamento di New York come quello e nessuno ha mai avuto capelli così in ordine al mattino).

Poi, nella prima stagione dei Soprano, e per la precisione nel quinto episodio, nasce un nuovo tipo di sfumatura drammatica in televisione, oltre che un nuovo tipo di realismo. Tony Soprano (James Gandolfini), un importante mafioso che è soggetto ad attacchi di panico e va dallo psicologo, sta portando sua figlia a vedere dei college nel Maine. È divertente, piacevole, attento ai dettagli, ma bizzarro. Intravede un tizio in una stazione di servizio, un traditore del suo quartiere nel New Jersey che ora vive sotto il programma di protezione dei testimoni. Prima della fine dell’episodio, Tony lo strangola a morte. Il nostro eroe non è Raskolnikov, è un porco sessista e razzista, ma è comunque pieno di energia, curioso, socievole e sorprendente. I personaggi della letteratura sono così: non dei tirapiedi per le vostre fantasticherie sulla lealtà e la politica onesta, ma creature del loro tempo.

Oggi non è da un politico che ci aspettiamo un discorso memorabile, ma dal protagonista di una serie. Un buon esempio è il momento migliore di The newsroom (una serie imperfetta di Aaron Sorkin per la Hbo), quando il conduttore di telegiornale Will McAvoy (Jeff Daniels) partecipa a un convegno. Una studente gli chiede perché gli Stati Uniti sono il più grande paese del mondo. “Non ci sono prove a sostegno di questa affermazione”, risponde McAvoy, nella costernazione generale. “Siamo settimi in alfabetizzazione, ventisettesimi in matematica, quarantanovesimi nell’aspettativa di vita, centosettantottesimi nella mortalità infantile, terzi per reddito medio familiare, quarti per forza lavoro e nelle esportazioni. Siamo primi solo in tre categorie: massimo numero di carcerati pro capite; numero di adulti che credono agli angeli; e spese militari, per le quali spendiamo più dei ventisei paesi dopo di noi messi insieme, e venticinque sono nostri alleati”.

All’inizio degli anni novanta i produttori della Hbo non pensavano come normali persone della tv. Quando li intervistavano a proposito del loro lavoro, spesso sembravano degli scrittori che parlavano del loro stile. It’s not tv di Felix Gillette e John Koblin è un’ottima guida a questo mondo. Gli autori citano David Simon, creatore di The wire:

Non ho mai considerato The wire una storia su Baltimora. Naturalmente ho inserito dei dettagli di Baltimora perché erano quelli che conoscev0. Ma avrei potuto fare lo stesso con Pittsburgh, Cleveland o St. Louis. Consideravo The wire una storia sull’urbanesimo postindustriale, sui problemi che la vita e il governo delle città pongono nella nostra epoca postmoderna.

The wire ha rovesciato i polizieschi, così come I Soprano ha rovesciato le storie sulla mafia, ma possiamo dire che queste serie hanno anche interrogato i loro personaggi, coniugato preoccupazioni politiche e promosso un gusto per l’ambivalenza con modalità che ci si aspettava soprattutto da scrittori raffinati. Nel 2010 praticamente tutti stavano guardando la miniserie prodotta da Tom Hanks e Steven Spielberg The Pacific, per la quale la Hbo aveva investito duecento milioni di dollari. Ted Sarandos oggi è amministratore delegato di Netflix, ma all’epoca era responsabile delle licenze sui contenuti per il servizio di streaming, relativamente nuovo dell’azienda. Ricorda che si era stupito che la Hbo spendesse tanto per ogni serie tv e ne aveva parlato con Chris Albrecht, all’epoca direttore della rete e suo futuro amministratore delegato. “Durante un pranzo a Beverly Hills, Sarandos aveva chiesto ad Albrecht perché diavolo insistessero in progetti del genere”, raccontano Gillette e Koblin. “‘Perché possiamo farlo’, gli aveva risposto Albrecht con indif­ferenza”.

Questa fiducia ha cambiato tutto il settore. “Nei due protagonisti della mia serie c’era tutta la guerra del Pacifico”, dice Tom Hanks in Tinderbox di James Andrew Miller. Era come se la Hbo avesse cominciato a definire il senso della storia nazionale. “Un giorno abbiamo organizzato una proiezione del primo episodio alla Casa Bianca”, racconta il dirigente Eric Kessler. “Davanti a me c’erano Obama, Spielberg e Hanks, e dietro c’erano i capi di stato maggiore delle forze armate. Ero tanto orgoglioso quanto stupito”.

Davide Bonazzi

Miller racconta una storia di “lotte per il potere, battaglie creative, gelosie, personalità tossiche, rivalità spietate e ambizione allo stato puro”. I protagonisti s’indeboliscono a vicenda, si urlano in faccia e si rubano il lavoro, il tutto in nome della qualità o del tornaconto personale in un’azienda in cui non c’era più distinzione tra le due cose. I dirigenti della Hbo sapevano come annientare un ex collega con lo stesso piacere con cui il vecchio megaproduttore di Holly­wood Darryl Zanuck si fumava un sigaro. “Era un bugiardo cronico”, racconta l’ispiratore della Hbo Michael Fuchs parlando di Jerry Levin , suo usurpatore vagamente machiavellico e presidente della Time Warner. “Non aveva le palle. Alla fine ho capito che però c’era una cosa che gli veniva bene, cioè quella cazzo di manipolazione interna, tipo Stalin”.

A metà degli anni sessanta, la Home Box Office era una startup della tv via cavo nella parte sud di Manhattan ed era nota soprattutto perché mandava in onda vecchi film ed eventi sportivi, come le partite di basket dei New York Knicks. Poi cominciò a interessarsi anche alla boxe, mandando in onda gli incontri migliori. Nel 1973 trasmetteva ancora cose tipo il festival della polka della Pennsylvania, però con lo sport gli abbonamenti avevano cominciato ad aumentare. L’azienda guadagnò punti con eventi come The rumble in the jungle e Thrilla in Manila, incontri di boxe di prim’ordine che contribuirono a vendere altri abbonamenti, così come speciali musicali (tipo Diana Ross al Caesars Palace di Las Vegas). La Hbo aveva show con i comici e niente pubblicità, e cominciò a fare film in un periodo in cui quelli della tv via cavo non potevano ancora essere candidati all’Emmy, il più grande premio per le produzioni del piccolo schermo. Cresceva la sua reputazione di piattaforma su cui trovavano ospitalità contenuti da adulti, senza mettersi limiti su immagini realistiche di violenza e sesso. “Negli Stati Uniti il sesso era ancora un segreto”, afferma Sheila Nevins, la leggendaria guru dei documentari della Hbo. Dire la verità, correre dei rischi nel raccontare una storia, parlare con franchezza: su questo insisteva l’azienda, i cui dirigenti a metà degli anni ottanta avevano tutti degli ottimi budget a disposizione. Ci si poteva divertire e loro lo stavano facendo: “Se avevi venti o trent’anni, ti sembrava di essere finito in paradiso”, afferma Dave Bald­win, un esuberante ex bibliotecario scolastico con la barba che per quattro anni ha diretto la programmazione della Hbo. “All’epoca le persone erano tutte single o stavano per tornare single”. Decenni prima che le aziende tecnologiche nella Silicon valley organizzassero feste aziendali eccessive e piene di personaggi famosi per rafforzare il loro marchio, la Hbo usò la sua reputazione festaiola per conquistarsi un vantaggio sulla concorrenza.

In quegli anni la loro grande ossessione era entrare nel campo della programmazione originale in un modo diverso, come nessuna emittente via cavo era mai riuscita a fare. Ci sarebbero riusciti? Rifiutarono la serie di Roseanne Barr Pappa e ciccia, poi presa dalla Abc. “Avevo un grande desiderio di lavorare con Chris Albrecht alla Hbo”, racconta Barr in Tinderbox. “Con loro mi sarei spinta molto più in profondità. Ci avrei messo dentro molta più roba da classe operaia, e un pezzo decisamente più grande del mio vissuto e delle difficoltà della vita vera”. “Non eravamo pronti”, dice Fuchs. Non avevano ancora cominciato la loro incredibile sequenza di successi da record né avevano scoperto la loro passione per le grandi storie realistiche. Quando alla fine l’avevano trovata, pagavano un attore come James Gandolfini più di un milione di dollari a episodio.

Già alla seconda stagione dei Soprano, la Hbo cominciò a pubblicizzare ogni episodio come se fosse un film a sé. “Non è tv. È Hbo”, era il suo famoso slogan. L’impennata della qualità era cominciata con Sex and the city, un nuovo genere di commedia romantica in cui i dirigenti della Hbo avevano mostrato una filosofia nuova: non gliene importava nulla di come gli altri canali valutavano il successo. Ricorda Jeff Bewkes, in seguito presidente della Time Warner, che possedeva la Hbo:

In occasione di una prima, Darren Star, il creatore di Sex and the city, mi disse: “Ehi, hai visto? Gli indici di ascolto sono in aumento!”. Io gli risposi: “Se non li fai calare almeno di un terzo, questa cazzo di serie la chiudo. Non me ne frega niente degli indici di ascolto. Voglio una serie migliore”.

I responsabili dei programmi erano invitati a portare avanti le loro idee. Non gli capitava mai di essere sommersi di “annotazioni” dai dirigenti e non c’erano inserzionisti che si lamentavano dei contenuti audaci. Potevano far andare avanti le storie per molte ore e stagioni, e non dovevano creare dei finali in sospeso adatti alle pause pubblicitarie. Così cambiavano la natura stessa delle serie tv. Si dice che Albrecht abbia dato una sola indicazione ai creatori di Six feet under: “Rendetelo ancora più fuori di testa”. “Nel mondo della tv queste cose non te le senti certo dire spesso”, spiega il produttore esecutivo della serie David Janollari.

In un certo senso, i dirigenti della Hbo stavano vendendo un nuovo ideale d’interesse umano. I capi incoraggiavano gli autori a rendere le cose più oscure, libidinose e surreali. Alan Ball, il creatore di Six feet under, aveva già lavorato a Grace under fire per la Abc e non ne poteva più delle solite routine e dei soliti copioni della rete che, si legge su It’s not tv, erano “sempre la stessa cosa: fai sembrare tutti più carini ed esplicita i sottintesi. ‘Era una cosa che ti toglieva l’anima’, ha raccontato Ball. ‘Ho dovuto disimparare molte abitudini. Quando passi anni a fare televisione per una rete impari ad anticipare le annotazioni dei dirigenti’”.

I produttori della Hbo non pensavano come normali persone della tv. Quando li intervistavano, spesso sembravano degli scrittori che parlavano del loro stile

Allo stesso modo Terence Winter, diventato responsabile del programma e autore di Boardwalk empire. L’impero del crimine per la Hbo, riflette su quanto fosse assurdo scrivere per programmi non della Hbo come Flipper, che era un revival del 1995 di una classica serie tv basata su un delfino, e si era rivelato una vera sfida. “Non credo che le persone si rendano conto che al mondo possono esistere solo dieci storie che hanno come protagonista un delfino”, ha affermato Winter. “Quando capisci quali sono queste storie ma ti restano ancora dodici episodi da scrivere cosa fai? Coinvolgi Flipper in un omicidio?”.

Quindi la Hbo è diventata più grande, profonda e “fuori di testa”, al punto che le trame prevedibili potevano sembrare una sorta di corruzione. Il finale di Sex and the city, quando Carrie Bradshaw e Mr. Big finiscono insieme e tornano a New York, ha dato la sensazione che la storia si sciogliesse con dei cliché romantici tradizionali. C’erano state evidenti tensioni in quella serie – scontri di personalità, liti e pettegolezzi – ed era stato complicato tenere insieme coraggio e convinzioni. “Penso che alla fine Sex and the city abbia tradito il suo significato profondo, cioè che in ultima analisi le donne non trovano la felicità nel matrimonio”, ha dichiarato in seguito Darren Star. “Certo, potevano riuscirci. Però all’inizio la serie non voleva essere come le commedie romantiche che l’avevano preceduta”. E questo sarebbe sempre stato un problema, soprattutto con il #MeToo.

La Hbo si era fatta un nome con gli incontri di boxe e i contenuti sessuali, ma a metà degli anni 2000 le persone che avevano creato le sue grandi serie si crogiolavano nel loro brodo. Scrivono Gillette e Koblin:

Come i romanzieri britannici dell’ottocento o i registi holly­woodiani degli anni settanta, l’autore della tv via cavo negli anni duemila era diventato un personaggio ben definito nella cultura popolare, osannato dalla stampa, infilato nei manuali accademici e immediatamente riconoscibile da alcuni tratti specifici. Era brillante, chiacchierone, irascibile, colto, volgare, entusiasta, lirico, eccessivo, vendicativo, ipocrita e pieno di misteri. Non era solo straordinariamente bravo a fare la televisione, ma anche a parlarne. E, anche se questo non era mai esplicitato, era un maschio.

Quel senso di adempiere a una missione è sopravvissuto anche nel mercato di oggi. “La Hbo è fatta da un gruppo di persone molto determinate”, ha dichiarato non molto tempo fa Miller allo Hollywood Reporter, “che si svegliano ogni mattina, vanno in ufficio e cercano di fare del loro meglio per sopravvivere in un mondo che negli ultimi anni è stato molto duro per il loro modello d’affari. È come se stessero cercando di scalare l’Everest in un giorno freddo indossando solo dei pantaloncini. Fanno di tutto per continuare a essere rilevanti nonostante la concorrenza: quella di Netflix in termini di abbonamenti, quella della Apple in termini di soldi che può mettere sul piatto e quella di Amazon in termini di determinazione a essere una presenza potente. Penso che la Hbo sia una realtà in lotta per la sopravvivenza”.

Ma la cosa davvero importante quando si parla della Hbo è il suo rapporto con il modo in cui gli Stati Uniti raccontano le loro storie. L’azienda non ha fatto tesoro solo dei suoi successi, ma anche dei suoi fallimenti. Magari si è fatta sfuggire l’occasione con Mad men, Breaking bad e House of cards – non ha acchiappato nessuna di queste saghe che parlano di uomini che si comportano male – ma ha risposto con una certa eleganza producendo Girls, Big little lies, Omicidio a Easttown e L’amica geniale.

Un regista che ha ricevuto una nomination agli Oscar mi ha detto di recente che in teoria per fare una serie che si occupi della situazione politica si dovrebbero aspettare dieci anni, ma la Hbo la fa subito. Guardiamo la Hbo per capire in che modo la fiction cerca di sintonizzarsi sui fatti anche quando questi lanciano segnali poco chiari. Se sfidiamo il concetto di notizie false, sembra voler dire la Hbo, dobbiamo anche rivedere il nostro impegno nei confronti della “narrativa reale”. Girls di Lena Dunham era una commedia che dialogava con la sua epoca. Racconta Dunham:

Per me è stato fondamentale che la rete acconsentisse alla possibilità che il personaggio di Adam Driver commettesse violenza sessuale e continuasse a essere un romantico a cui si voleva bene. Naturalmente nella vita reale i miei valori, quelli che per me è importantissimo affermare, sono sintetizzabili con ‘Credete alle donne. Le cose sono bianche o sono nere’. Però penso che nei film dobbiamo essere libere di avere delle sfumature. Volevo riuscire a scrivere di persone che facevano cose contraddittorie.

Naturalmente c’è chi non sopporta i romanzi che raccontano cose contraddittorie. Prosegue Dunham:

Viviamo in una società in cui una donna non può urlare ‘sono in gamba’ senza dover subire terribili conseguenze. E com’è possibile che Tony Soprano e Walter White siano degli assassini, ma che gli spettatori gli vogliano bene mentre odiano Hannah e Marnie di Girls, e pensano che siano persone orrende? Com’è possibile fare il tifo per un sicario della mafia ma non riuscire a fare il tifo per una ragazza che ha tradito il suo ragazzo? Non lo so, ma il mondo in cui viviamo è questo.

La fiction naturalmente può essere divisiva, e in un mondo in cui nessuna verità è una verità per tutti ogni racconto può essere soggetto a correzioni e rinegoziazioni.

L’universo della Hbo sta ancora cambiando, ma in quanto forza di produzione ha fatto tantissima strada dai tempi del festival della polka della Pennsylvania. Oggi per la tv la vera sfida sono i social network. La lotta per produrre storie autentiche è costosa, soprattutto quando una parte così rilevante dei ragazzi, allevati su TikTok, hanno un desiderio insopprimibile di contenuti gratuiti con gatti che ballano e video dei loro compagni di classe presi a calci nelle palle. “La grande televisione ha avuto un’unica origine”, scrivono Gillette e Koblin,“cioè la capacità di prestare ascolto agli artisti e di sostenere senza limiti il loro istinto e le loro idee”.

Chi mai poteva immaginare, a parte forse la stessa televisione, che il futuro sarebbe stato un posto in cui la realtà può sembrare meno reale della sua rappresentazione? Come chiedeva il personaggio di Paulie Gualtieri dei Soprano, mentre cercava di spiegare ai suoi amici come si trasmettono i germi: “Per capire il mondo devo guardare la tv?”. ◆ gim

Andrew O’Hagan è uno scrittore e giornalista britannico. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Effimeri (Bompiani 2022). Questo articolo è la recensione di due libri: It’s not tv: the spectacular rise, revolution, and future of Hbo (Viking 2022), di Felix Gillette e John Koblin; Tinderbox: Hbo’s ruthless pursuit of new frontiers (Henry Holt 2023), di James Andrew Miller. È uscito sul quindicinale culturale statunitense The New York Review of Books con il titolo Bigger, deeper and more “fucked up”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1504 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati