Il 10 aprile la Apple e Google hanno dichiarato in contemporanea sui rispettivi siti che non c’è mai stato “momento migliore” di questo per “lavorare alla soluzione di uno dei problemi globali più urgenti”. I due colossi tecnologici hanno annunciato la loro collaborazione allo sviluppo di una piattaforma per il cosiddetto contact tracing, la tecnologia per il tracciamento delle infezioni da covid-19 attraverso lo smartphone. Entrambi hanno auspicato che “la potenza della tecnologia possa aiutare il mondo intero”. In altre parole, gli ingegneri californiani si accingono ancora una volta a salvare l’umanità liberandola dal male, lasciandosi ispirare dal motto di Google: don’t be evil, non essere cattivo. A marzo lo stesso presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, aveva chiarito che questa era anche la sua speranza. In una conferenza stampa Trump aveva ringraziato Google per i suoi “1.700 ingegneri” creatori del sito che avrebbe permesso di fare test a tappeto per il covid-19. Il presidente si era detto anche lui convinto che ne avrebbe beneficiato tutta l’umanità, oltre agli Stati Uniti.

Non importa che le parole di Trump fossero esagerate, visto che il sito era al massimo allo stato embrionale e che i test disponibili su larga scala erano più sogno che realtà. Quello che importa è l’atteggiamento: in caso di emergenza epidemica la Casa Bianca contava sull’élite tecnologica e aveva fiducia nella fattibilità di alcune soluzioni più degli esperti del settore. Trump e le grandi aziende tecnologiche esprimono una mentalità secondo cui la tecnica è lo strumento definitivo per risolvere i problemi. Ma, soprattutto, l’emergenza provocata dalla pandemia ha evidenziato un’enorme lacuna nella sovranità dello stato che i gruppi della Silicon valley sono pronti a colmare con impegno e risolutezza. Lo fanno ormai da tempo in modo tutt’altro che sprovveduto: da anni si stanno espandendo nel settore sanitario, accumulando conoscenze sul tracciamento attraverso gli smartphone e con i cosiddetti wearable, i dispositivi indossabili interconnessi, come gli smartwatch. Con la crisi del covid-19 sembra finalmente arrivato il loro momento per imporsi come precursori di un sistema sanitario basato sui dati e allo stesso tempo accreditarsi come buoni samaritani. Insomma, oggi la filosofia della Apple e di Google può essere sintetizzata così: mai sprecare una crisi grave.

Alphabet, la holding a cui appartiene Google, ha interpretato l’annuncio di Trump a proposito del sito per il test sul covid-19 come un invito a improvvisare: ha fatto sapere subito che, oltre al sito per il coordinamento dei test, avrebbe offerto anche test propri attraverso la Verily, una sua azienda. Alla velocità della luce ha reclutato il numeroso personale necessario e ha organizzato dei drive-
through
(il prelievo dei tamponi direttamente in auto) in California, New York, New Jersey, Ohio e Pennsylvania, per permettere uno screening sicuro ed efficiente del covid-19. Certo, chi usufruisce del servizio deve fare una specie di test d’idoneità rispondendo a domande sulle sue condizioni di salute, il suo domicilio e la sua storia clinica: in questo modo Verily ha la possibilità di raccogliere molti dati personali (all’inizio era addirittura obbligatorio avere un account Google). Tutto questo è in linea con una strategia aziendale per cui la maggior parte dei servizi è gratuita solo in apparenza. Proprio in questi tempi di pandemia Google insiste sul concetto, ripetendo sharing is caring, la condivisione è prendersi cura. La capacità di comprendere la situazione velocemente ha permesso al gruppo di agire subito: anche se non ha adempiuto del tutto al compito che gli ha affidato Trump, Google ha preso il timone con autorevolezza ed efficacia comunicativa. Grazie all’incarico ufficiale, ha potuto accreditarsi come soccorritore. Del resto non c’era bisogno della pandemia per spingere Google a trattare la salute come una questione tecnologica e quindi come un mercato di cui prendere il controllo. Dal 2018 Verily coordina, attraverso il progetto Baseline, ampie ricerche che promettono addirittura una “riconfigurazione del futuro della sanità”. Che si tratti di misurazioni condotte su diecimila persone per un periodo di quattro anni con appositi orologi, di ricerche sul diabete di tipo 2 o di studi sulla salute cardiaca o mentale, l’idea è sempre la stessa: usare i dati per sapere di più sull’interazione tra il corpo, la mente e l’ambiente, per indagare il significato di salute e malattia, ma soprattutto per sviluppare nuovi prodotti e servizi. Viste le dimensioni del progetto, il gruppo non esita a parlare di rivoluzione: una rivoluzione che nel nome della salute s’impegna a misurare di più, produrre più dati, sorvegliare di più in regime di monopolio. Google dice: abbiamo mappato il mondo, ora mappiamo la salute umana.

I test per il covid-19 non sono l’unica risposta di Alphabet alla pandemia. Con Google Maps e i suoi abituali sistemi di mappatura l’azienda ha prodotto i cosiddetti Mobility-report in 131 paesi. Si tratta di ricerche che usano dati di localizzazione aggregati e resi anonimi che di solito servono a dirci quant’è frequentato un certo posto, per esempio un ristorante all’ora di pranzo. Con la pandemia questi dati sono stati messi a disposizione delle autorità per tracciare la mobilità, individuare zone a rischio di contagio e verificare che la popolazione si attenesse davvero all’obbligo di restare a casa. Questo servizio non si limita a mostrare l’aumento della frequentazione dei parchi nel cantone di Berna o la diffusione del lavoro a distanza a Ginevra; può diventare anche uno strumento in mano alle autorità e le conclusioni tratte dai dati raccolti possono ispirare nuove leggi. Da questo punto di vista la sovranità è nelle mani di chi ha gli strumenti migliori.

Nell’unità di crisi tecnologica che si occupa del bene dell’umanità non c’è solo Alphabet. Anche Facebook ha trovato la sua missione. Il social network ha creato il Coronavirus information center per il suo newsfeed, sta combattendo con più impegno le notizie false e ha creato un emoji affettuoso per esprimere solidarietà al tempo del covid-19. Facebook pensa di usare l’interconnessione della sua comunità per monitorare il virus e si rivolge in modo mirato ai suoi utenti promuovendo un questionario della Carnegie Mellon university: grazie alle segnalazioni individuali i ricercatori producono ogni settimana una mappatura dei sintomi. L’obiettivo è raggiungere milioni di utenti: serve un vasto bacino d’informazioni per comprendere quale sia la diffusione del contagio. Anche se i dati non sono condivisi con Facebook, ci s’interroga sui criteri adottati dall’azienda nella scelta dei potenziali partecipanti. “Queste informazioni potranno essere utili al sistema sanitario per capire dove impiegare le risorse e stabilire quali settori della società possono eventualmente riaprire, quando, dove e perché”.

New York, Stati Uniti, maggio 2020. Le foto in queste pagine sono state scattate a New York durante il picco dell’epidemia di covid-19 nella città, quando erano in vigore rigide misure di distanziamento sociale (Dina Litovsky, Redux/Contrasto)

Dati al servizio del bene

Oltre a questa quotidiana raccolta di informazioni, Facebook sta ampliando anche il suo programma Disease prevention maps, mappe per la prevenzione delle malattie. Il progetto usa i dati di localizzazione generati con le app del social network per aumentare “l’efficienza delle campagne sanitarie e della lotta all’epidemia” ed è già stato impiegato nel tracciamento del colera in Mozambico e nel contenimento del virus zika. Ora tre nuovi strumenti – le Colocation maps, i Movement range trends e il Social connectedness index – dovrebbero permettere di studiare come il raggio degli spostamenti e dei contatti sociali della popolazione contribuisce alla diffusione del covid-19 e di capire se le restrizioni imposte alla popolazione stanno funzionando o se servono nuove misure. Anche qui, il motto dei processi di mappatura promette molto: data for good, la missione è fare del bene.

Facebook, però, non si limita a farsi pubblicità nel ruolo di strumento disinteressato a disposizione delle autorità sanitarie. Con il mappatore sociale mira a estendere la sua sfera d’influenza e a rafforzare la sua leadership. E quindi se a marzo Mark Zuckerberg ha donato 720mila mascherine agli ospedali pubblici e 25 milioni di dollari al progetto di ricerca Covid-19 therapeutics accelerator, non l’ha fatto solo per apparire un caritatevole filantropo impegnato per il bene comune. La sua azienda vede nella crisi un’opportunità per diventare da semplice social network a una specie di rete di ricerca. Facebook, quindi, cerca di accreditarsi come l’infrastruttura pubblica che ha sempre voluto essere: un elemento essenziale al mantenimento del sistema.

Al momento, oltre alla Carnegie Mellon university, Facebook collabora anche con diverse istituzioni sanitarie e fa ricerca con la New York university e con il Mila research institute di Montréal sull’impiego dell’intelligenza artificiale per migliorare la capacità d’azione di ospedali e personale sanitario. Inoltre ha lanciato un’ambiziosa alleanza globale, il Covid-19 mobility data network. Dedicandosi al lavoro di cura, l’azienda collabora con la Harvard school of public health, la National Tsing Hua university di Taiwan, l’università di Pavia e la Bill & Melinda Gates foundation con l’obiettivo di stabilire con maggiore precisione il momento del contagio. Vengono usati i “dati in tempo reale tratti da Data for
good di Facebook” per elaborare modelli capaci di prevedere l’andamento della crisi. In poche parole, trasformare il futuro da incerto a probabile.

Dina Litovsky, Redux/Contrasto

Se mesi fa tecnologie di questo tipo erano usate soprattutto per studiare le preferenze degli utenti, prevedere i loro comportamenti (di consumo) e i luoghi che avrebbero frequentato, in modo da indirizzargli messaggi pubblicitari in base agli spostamenti, oggi la passione che il capitalismo della sorveglianza ha per la raccolta dei dati appare in una luce diversa. Infatti, proprio grazie al fatto che viene chiamato a gestire la crisi, Facebook, la cui immagine di recente ha subìto duri colpi, sembra riabilitarsi, facendo dimenticare gli scandali relativi alla privacy e accreditandosi come portatore salvifico, quasi magico, della connessione digitale. Per dirla con Zuckerberg: “Già in passato il mondo ha dovuto affrontare le pandemie, ma oggi abbiamo un nuovo superpotere: sappiamo raccogliere e scambiare dati per fare del bene”. E così si è modificato anche il nostro modo di guardare a questo monopolista. Infatti, anche se la loro efficacia nella lotta al covid-19 non è affatto chiara, al momento mappature e servizi ci appaiono come attraenti offerte terapeutiche e questo rafforza la posizione dell’azienda rivitalizzandone le ambizioni. Per Facebook la crisi si rivela un utile aggiornamento del sistema, che gli offre una nuova legittimazione.

Oltre alle promettenti analisi dei dati, nella Silicon valley si fanno anche esperimenti più disinvolti, che mirano a un altro tipo di vicinanza e di legame con il paziente.

Nel Zuckerberg San Francisco general hospital s’indaga su come i dispositivi indossabili possano compensare la scarsa disponibilità di test. Con l’Oura-ring – un anello che misura la frequenza cardiaca e respiratoria – dovrebbe essere possibile individuare l’infezione da covid-19 ancora prima che si manifestino i sintomi. Questo dispositivo, che s’indossa direttamente sul corpo, è fornito al personale ospedaliero che è a contatto costante con i malati. A sua volta il personale fornisce dati interessanti al dispositivo. In futuro il tracciamento in tempo reale dovrebbe permettere una risposta più rapida, un controllo più mirato e una migliore assistenza dei lavoratori che si stanno ammalando: un anello per curarli, un anello per trovarli.

Dina Litovsky, Redux/Contrasto

Lo studio Detect dello Scripps re­search institute è pensato su scala ancora più grande: l’idea è di allargare il più possibile la cerchia dei partecipanti. Qui la sorveglianza non si serve solo di un dispositivo da indossare, ma praticamente dell’intera gamma dei cosiddetti fitness tracker, che rilevano l’attività quotidiana: dal sottile Fitbit di Google all’elegante Apple Watch. Possono partecipare tutti gli utenti di questi dispositivi residenti negli Stati Uniti che, da veri scienziati partecipativi, inviano direttamente ai ricercatori dati sui loro parametri fisici con la app MyDataHelps (i miei dati aiutano). Un po’ come con Oura-ring, anche qui si tratta di “individuare” precocemente i sintomi e “ri-socializzare” quanto prima i dati individuali per mappare, localizzare e contenere al meglio i focolai d’infezione.

Detect è la nuova versione di uno studio precedente, pubblicato a gennaio, che usava dispositivi indossabili per studiare il cosiddetto real time flu tracking (tracciamento dell’influenza in tempo reale) su circa duecentomila persone che indossavano Fitbit. Il bracciale registrava dati relativi al battito cardiaco a riposo e durante il sonno che, secondo i risultati della ricerca, permettono di prevedere meglio l’influenza rispetto ai metodi tradizionali. Il tracciamento non è sempre stato convincente: i dati sul sonno non erano del tutto esatti e non era sempre possibile distinguere con chiarezza il battito accelerato dall’influenza e quello accelerato dallo stress della vita quotidiana. Eppure gli autori hanno sottolineato il grande potenziale dei dispositivi indossabili, la cui diffusione avrebbe reso presto possibile una sorveglianza più costante, più capillare, con indicazioni temporali più precise. Già oggi circa un quinto degli svizzeri usa dispositivi indossabili, e la tendenza è in crescita.

Lo studio Detect cerca di tradurre in realtà questo potenziale, ampliando insieme ai parametri biometrici – come per esempio l’attività giornaliera – anche la profondità di campo della sorveglianza. Il sito di Detect la mette così: “Avrete il potere di controllare la vostra salute dando anche modo agli operatori del sistema sanitario pubblico di arrestare la diffusione delle sindromi similinfluenzali all’interno delle comunità”.

Mappatura partecipativa

Con il covid-19 è cresciuta la disponibilità a donare i propri dati per solidarietà e così si può passare da un io quantificato a una collettività quantificata. Raccolta, analisi e controllo continui dei dati personali sono descritti come un’innovativa possibilità di studio, una forma di rafforzamento della collettività. E così, senza alcuno sforzo, il controllo di sé si lega al controllo dell’altro. Quella che prima del covid-19 poteva ancora sembrare una sorveglianza invasiva oggi è percepita come una mappatura sanitaria partecipativa, al servizio della scienza. Una scienza i cui risultati sono sempre più legati ai dispositivi smart, che ci vengono proposti con insistenza crescente.

Dina Litovsky, Redux/Contrasto

Nella situazione attuale è facile percepire queste grandi ricerche condotte con i dispositivi indossabili – anche l’università di Stanford ha lanciato uno studio sul covid-19 – come un fenomeno dovuto alla crisi. Ma non bisogna farsi ingannare: da molto tempo per la Silicon valley sono il pane quotidiano. Mentre Google vuole raccogliere tutti i parametri sanitari con i dispositivi indossabili, di recente è stata soprattutto la Apple a fare dei tentativi per sviluppare dei laboratori sperimentali portatili. Con il suo smartwatch e la sua Research app, l’azienda di Cupertino ha esplorato le potenzialità imprenditoriali aperte da alcuni campi di ricerca. Già prima della pandemia chi indossava i suoi sensori, mettendo i propri dati a disposizione di università, ospedali o istituzioni come l’Organizzazione mondiale della sanità, poteva partecipare a grandi ricerche in campo medico, che spaziavano dalla capacità uditiva al monitoraggio del ciclo mestruale. Insomma, esiste un’infrastruttura che attraverso i dispositivi indossabili connette l’individuo al mondo promettendogli nuove scoperte scientifiche, prodotti futuristici ma, soprattutto, un ruolo di rilievo: the future of health research is you, il futuro della ricerca medica sei tu.

Non sorprende allora che l’Apple
Watch sia considerato un elemento essenziale in molti studi sul covid-19 e che il futuristico tracciamento di cui è capace riscuota molti consensi. Come ci ha spiegato il direttore generale della Apple, Jeff Williams, la pandemia ha fatto sì che alcune nuove funzioni dell’Apple Watch, come il misuratore della frequenza cardiaca, si affermassero più rapidamente. Quindi anche una ricerca sul covid-19 fatta in proprio sembra essere solo una questione di tempo.

Già adesso la Apple non se ne sta con le mani in mano: il suo amministratore delegato, Tim Cook, dà consigli al presidente degli Stati Uniti, riorganizza le catene di distribuzione, progetta visiere per il personale sanitario e, attraverso il sistema di mappe dell’azienda, fornisce alle autorità dei rapporti sulla mobilità, un po’ come fa Google. Insomma, anche la Apple si è messa a completa disposizione e non pensa certo che i suoi compiti nel settore sanitario si fermino al polso. Vorrebbe sfruttare la situazione per lanciare nuove app e nuovi servizi. L’annuncio fatto da Cook nel gennaio del 2019 è più attuale che mai: “Quando un giorno ci si chiederà in quale campo la Apple abbia data il suo contributo maggiore al genere umano”, la risposta sarà una sola: “In quello della salute”.

Chi ha seguito in questi mesi gli studi della Apple e di Google nel settore sanitario non è rimasto sorpreso neanche dalla notizia della loro collaborazione nel campo del tracciamento dei contatti. Era ovvio che le due aziende non avrebbero aspettato che le istituzioni pubbliche facessero quello che devono fare. Da bravi ingegneri hanno presentato la loro “soluzione onnicomprensiva”. L’infrastruttura che prevede di sviluppare per le più diverse app di tracciamento punta su un approccio decentrato e quindi sembra ben più ugualitaria e progressista dei sistemi centralizzati, che sono esclusi del tutto. Che questi gruppi, con la forza che hanno sul mercato, introducano una norma ineludibile, universalizzando e standardizzando (o, secondo il gruppo tedesco di hacker Chaos computer club, “imponendo”) la loro “soluzione”, è un semplice effetto collaterale. Insomma, di questi tempi che sembrano andare fuori controllo la Silicon valley coglie l’attimo tornando a imporsi e a sfruttare la sua influenza: utenti di smartphone di tutto il mondo, unitevi! Certo, per la Apple e per Google “non c’è mai stato momento migliore” per aiutarci a salvare il mondo con la “potenza della tecnologia”, per sanarlo secondo le loro convinzioni. Ma raramente c’è stata più disponibilità, o forse necessità, di fidarsi di loro.

Da sapere
Boom in borsa
u La crisi economica legata alla pandemia di covid-19 ha risparmiato alcuni settori. Insieme alle case farmaceutiche, le aziende tecnologiche hanno registrato i risultati migliori, come dimostra la loro valutazione in borsa al 19 giugno 2020. (Fonte: Financial Times)

Biopolitica datificata

Tutte le crisi creano uno spazio di decisione, in cui si può scegliere tra diverse possibilità, uno spazio in cui si rischia il tutto per tutto, il successo o il fallimento, il corpo e la vita. Negli ultimi anni le aziende della Silicon valley hanno spesso dimostrato di scalpitare per prendere decisioni che riguardano tutti, e alcune sono pronte a gestire l’emergenza.

Anche nella pandemia emerge con evidenza la particolare forma di elasticità californiana. Raramente è stato così facile osservare la rapidità con cui i vari protagonisti si adattano, usando o perfino riorientando le loro strutture per imporsi – o reinventarsi – come soccorritori indispensabili per combattere la crisi.

Certo non stupisce che vengano abilmente rianimate vecchie narrazioni (come il don’t be evil di Google) o che in molti casi questo “soluzionismo” ottenga una nuova legittimità e che l’interconnessione generale si manifesti sempre di più nel quotidiano. Ma ci sono senz’altro rischi ed effetti collaterali importanti: queste aziende possono non solo contrastare la crisi e aiutare i sistemi sanitari attraverso ogni sorta di alleanza tra pubblico e privato, ma anche attuare uno strisciante e sotterraneo slittamento di sovranità, con la quotidianità che diventa laboratorio sperimentale delle aziende, con la vita stessa che diventa esperimento di misurazione smart. Quella che potremmo chiamare biopolitica datificata diventa sempre più parte del sistema. Da tempo ormai le istituzioni pubbliche e i privati hanno capito quanto siano antiquati i vecchi strumenti come le statistiche periodiche e le medie. Sanno che servono meccanismi più personalizzati, mappe più precise, apparati più flessibili per assicurare il funzionamento del corpo individuale e soprattutto sociale. I messia della Silicon valley, ormai sovrani, trasformano la funzione portante dello stato in uno dei loro servizi, sviluppando strumenti essenziali alla sanità pubblica e registrando un’enorme crescita delle competenze dopo essersi proclamati istituti di ricerca. Nel nome della salute, quindi, il singolo si muove sempre più in luoghi tracciati, mentre i suoi dati sono misurati in tempo reale e lo stato di benessere, il battito cardiaco e il ritmo circadiano sono sottoposti a osservazione continua.

Come si diceva all’epoca della Re­search app della Apple? L’umanità ringrazia. Quello che durante l’emergenza sembra del tutto comprensibile, e magari perfino ragionevole, diventa rapidamente una nuova normalità: una realtà in cui l’uso invadente e monopolista della tecnologia digitale penetra così a fondo nella vita e nell’esperienza da dispiegare una propria forza normativa. A un certo punto non si limita più a descrivere l’essere, ma anche il dover essere. Allora, forse, le parole di Trump, “Vorrei ringraziare Google”, non andrebbero più pronunciate tanto alla leggera, e forse la crisi non andrebbe vista come un problema risolvibile solo in modo smart. Dovremmo invece dare un’occhiata al foglietto illustrativo dei farmaci che il capitalismo della sorveglianza ci sta somministrando. ◆ _ sk_

Anna-Verena Nosthoff è una filosofa e politologa dell’università di Vienna. ** Felix Maschewski** insegna economia alla Freie universität di Berlino.

Anna-Verena NosthoffFelix MaschewskiAnna-Verena Nosthoff è una filosofa e politologa dell’università di Vienna. Felix Maschewski insegna economia alla Freie universität di Berlino.

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Questo articolo è uscito sul numero 1364 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati