L’arrivo al potere in Siria di un gruppo che alcuni definiscono islamista e altri jihadista è per il momento un evento secondario rispetto alla caduta del regime di Bashar al Assad. Per la Siria e per la regione, in termini geopolitici e storici, la fine del “regno del silenzio e della paura” e il crollo del sedicente “asse della resistenza” sono una liberazione che apre il campo delle possibilità, anche se sono accompagnati da due dinamiche molto più inquietanti. Da un lato, il formarsi di un nuovo Medio Oriente dominato da Israele e, in misura minore, dalla Turchia, sulle rovine di Gaza, del Libano e della Siria. Dall’altro, la spettacolare trasformazione di Hayat tahrir al Sham (Hts), l’ex ramo di Al Qaeda – il cui portavoce vuole ora creare uno stato civile – che suscita dei sospetti. Dopo l’euforia arriva il momento della riflessione e delle domande. Dobbiamo temere la presa del potere di Hts? Prima di provare a rispondere, bisogna ricordare tre cose essenziali.

Innanzitutto, non lo si ripeterà mai abbastanza, niente può essere peggio del regime degli Assad, tanto per la Siria quanto per la regione. Per convincersene basta ricordare come questo clan abbia mantenuto il potere per più di cinquant’anni, reprimendo ogni forma di dissenso con la violenza e il terrore. E se questo non bastasse, bisogna guardare da vicino l’orrore del carcere di Saydnaya, tomba dell’umanità, o leggere come il regime ha torturato, spezzato, martoriato, divorato e poi ucciso Mazen el Hamada, un rivoluzionario che sognava solo giustizia e libertà.

Una serie di sfide

In secondo luogo prima ancora di poter esercitare il potere il leader di Hts Abu Mohammed al Jolani, nome di battaglia di Ahmed al Sharaa, deve superare una serie di sfide tutt’altro che semplici. Deve farsi accettare da tutti gli altri gruppi ribelli, in particolare da quelli del sud che sono arrivati a Damasco prima di lui. Deve trovare un compromesso con le forze curde, che dominano l’est della Siria e parte del nord, per evitare una nuova guerra civile, senza però far arrabbiare la Turchia, che sogna solo di farla finita con la filiale siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), bestia nera di Ankara. Deve poi riconnettere la Siria al mondo occidentale e allo stesso tempo difendere la sua sovranità di fronte a Turchia, Russia, Iran e Israele. La Siria è un paese rovinato e frammentato. Riuscire a stabilizzarlo e a evitare massacri è di per sé una fatica di Ercole. Bisogna riconoscere ad Al Jolani un talento politico in questo campo. È già riuscito a unificare i ribelli, rassicurare le minoranze, negoziare il mantenimento delle basi russe inviando segnali positivi all’occidente, tendere la mano ai curdi pur ricevendo il capo dell’intelligence turca a Damasco. È tutto molto fragile, ma il capo di Hts ha fatto più compromessi in pochi giorni di Bashar al Assad in ventiquattro anni.

Il terzo punto è definire bene a chi ci si riferisce quando ci si chiede se “si deve” avere paura di Al Jolani. Chi deve aver paura? I siriani? I libanesi? Gli abitanti della regione? O gli europei che temono attentati terroristici sul loro territorio? In Siria le minoranze sono preoccupate e il resto della società, anche la parte conservatrice, non vuole vivere sotto un regime jihadista. La ritrovata libertà d’espressione e la maturità politica dimostrata dai siriani costringono il nuovo uomo forte a non indossare, almeno per ora, l’abito del tiranno. Naturalmente c’è da temere che sotto un eventuale regno di Al Jolani la Siria si trasformi in un paese fondamentalista, che torni a essere un focolaio del jihadismo internazionale o che faccia da volano ai gruppi islamisti in Libano e nella regione. Ma anche supponendo che stia solo cercando di attirarsi simpatie, si può ritenere che finché Al Jolani manterrà questo atteggiamento non costituirà una minaccia né per il suo paese né per gli altri. La chiave è e rimarrà in Siria. 

Scendere a compromessi

Detto questo, è ora di entrare nel vivo della questione: Abu Mohammed al Jolani è davvero cambiato? Dovremmo smettere di chiamarlo così e usare il suo vero nome, Ahmed al Sharaa? È molto difficile valutare se è un cambiamento tattico o una vera mutazione ideologica. Un uomo che è stato nelle file del gruppo Stato islamico (Is) e di Al Qaeda può diventare un capo di stato pronto a garantire il rispetto del pluralismo e delle libertà civili? Saranno presto otto anni da quando ha tagliato i ponti con Al Qaeda ed è diventato il leader della provincia di Idlib. Negli anni si è evoluto in termini di immagine e di contenuti. Se da un lato ha represso le proteste, ha fatto la guerra alle frange più radicali e ha esteso il suo controllo su tutte le infrastrutture civili, in particolare scuola e università, dall’altro è stato costretto a scendere a compromessi per farsi accettare dalla popolazione. Il suo potere è stato autoritario senza essere totalitario, islamista senza essere fondamentalista, aperto in una certa misura alle minoranze (cristiani, non alawiti o sciiti) e tollerante nei confronti delle manifestazioni pubbliche che non gli erano direttamente ostili.

Il caso di Hts dovrebbe interrogarci su come definire il radicalismo in questa regione

Si può dire che Al Jolani ha inaugurato un nuovo capitolo nella storia del jihadismo. Ha capito che Al Qaeda e l’Is sono caduti a causa delle loro ambizioni e che è nel suo interesse costruirsi un potere a lungo termine, evitando lo scontro con l’occidente e le potenze regionali e facendosi accettare a poco a poco dalla popolazione. Il “jihadismo politico” di Hts, come descritto da Aaron Zelin, uno dei maggiori esperti in materia, è a lungo termine. Ma qual è l’obiettivo finale, a parte la conquista delle menti? È l’istituzione di un califfato in Siria? Il rovesciamento dell’ordine mondiale attraverso il jihad? Oggi è ancora poco chiaro.

Anche perché più fa concessioni sul suo progetto ideologico più la politica prende il sopravvento sulla religione e più sarà difficile per lui tornare indietro. Al Jolani potrebbe ancora essere un jihadista convinto, che si radicalizzerà negli anni prima di diventare una minaccia per i siriani e per l’ordine regionale e internazionale. Ma nel frattempo governa come un “islamista moderato” – se l’espressione ha senso – più preoccupato di conquistare e mantenere il potere che di trasformare la società siriana. Se cambia atteggiamento, potrebbe perdere gran parte del suo sostegno, all’esterno e all’interno. Allo stesso tempo, rischia di rimanere intrappolato nella sua stessa ricerca di credibilità.

E ora veniamo al punto senza dubbio più interessante. Il caso di Hts dovrebbe soprattutto interrogarci su come definire il radicalismo in questa regione del mondo. Quali dovrebbero essere i criteri? La repressione del dissenso, il divieto dell’alcol, le libertà negate alle donne e alle minoranze? Ci sono praticamente tutti i modelli nella regione. L’Arabia Saudita è un paese fondamentalista, senza essere totalitario nell’esercizio del potere né una minaccia diretta all’ordine regionale e internazionale. L’Iran, invece, è una potenza fondamentalista repressiva con obiettivi imperialisti. L’Iraq e la Siria, teoricamente dominati per decenni da un partito laico, sono stati modelli di brutalità e di strumentalizzazione del comunitarismo. L’islamismo è un cancro per le società arabe, ma il panarabismo e il baathismo hanno fatto almeno altrettanto male in Medio Oriente. Se da un lato è necessario uscire dallo stallo politico e intellettuale che contrappone queste due facce della stessa medaglia, dall’altro bisogna insistere sul fatto che l’una non fa più paura dell’altra solo perché ha le vesti dell’islam.

Hts s’iscrive nella storia di questi gruppi islamisti che cambiano aspetto, la cui fedeltà all’ideologia originaria dipende in larga misura dal contesto politico del momento. Chi avrebbe mai pensato che Hamas, descritto come un movimento ossessionato solo dal mantenimento del potere a Gaza, potesse commettere le atrocità del 7 ottobre 2023? Hezbollah, che ha compiuto vari attentati terroristici negli anni ottanta, è lo stesso gruppo più di quarant’anni dopo? L’Is avrebbe attribuito la stessa importanza alla lotta contro gli sciiti se l’Iran non fosse stato così influente in Siria e in Iraq in quel periodo? Al Jolani è naturalmente il prodotto della sua ideologia, ma anche di un contesto politico in continua evoluzione.

Il futuro suo e del gruppo dipenderanno soprattutto da quello della Siria. Quanto più rapidamente il paese uscirà dallo stato di estrema povertà in cui è sprofondato da un decennio, tanto meno sarà terreno fertile per la diffusione delle idee più radicali. Più il paese uscirà dall’isolamento regionale e internazionale, e legherà il suo sviluppo alle interazioni con gli altri, più sarà difficile per Hts imporre le sue idee alla società siriana. Sì, probabilmente si deve aver paura di Al Jolani. Ma la paura non deve farci perdere di vista l’essenziale: la Siria è finalmente padrona del suo destino. O, almeno, ha l’opportunità di esserlo prima che Al Jolani cerchi di stringere la presa. Spetta a lei decidere cosa vuole fare d’ora in poi. E a lui, ancora una volta, adattarsi. ◆ _adg _

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Questo articolo è uscito sul numero 1594 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati