Erano circa le sei di sera del 27 ottobre quando tutti gli abitanti della Striscia di Gaza hanno perso i contatti con il mondo esterno e tra di loro nel territorio assediato. La mia famiglia era radunata insieme a quella di mio zio nella sua casa nel campo profughi di Maghazi, nel centro della Striscia. Noi avevamo lasciato casa nostra in una zona occidentale e ci eravamo spostati più a sud seguendo gli ordini israeliani. Stavamo tutti in un’unica stanza per un semplice motivo: se fossimo morti sotto un bombardamento saremmo stati insieme. Nessuno di noi vuole che l’altro debba patire la sofferenza del lutto da solo.

Come faccio sempre, quella sera ho preso il portatile per assicurarmi che la batteria fosse carica. Stavo parlando con un giornalista canadese della terribile situazione nella Striscia di Gaza. Mio padre era al telefono con mio fratello Adham, che abita negli Stati Uniti, cercando di rassicurarlo. Nella stessa stanza mia cugina Reem leggeva le notizie su Telegram, dandoci aggiornamenti sulle località che erano state attaccate, in modo che potessimo metterci in contatto con i nostri cari che ci vivevano. In un altro angolo mio fratello di 13 anni giocava con mio nipote, Hammoud, che il mese prossimo compirà due anni.

Improvvisamente, la mia connessione internet è saltata. Nello stesso momento mio padre ha detto: “Ho perso il contatto con Adham”, e mio zio ha aggiunto: “Non ho segnale sul telefono”. Ci rimaneva solo la radio. Quando l’abbiamo accesa abbiamo sentito l’annunciatore di Al Jazeera riferire che Israele aveva interrotto le comunicazioni e l’accesso a internet in tutta la Striscia di Gaza. Siamo rimasti sconvolti e in silenzio. Ci siamo chiesti se quella sarebbe stata la nostra ultima notte da vivi.

I miei pensieri sono andati agli amici fuori della Striscia, immaginavo la loro angoscia non ricevendo nostre notizie. Pensavo anche ai parenti che avevano scelto di restare nelle regioni più pericolose di Gaza. Ero consapevole di non poter raccontare la verità al resto del mondo a causa del blackout e della mancanza di connessione. Non esiste una sensazione più angosciosa della combinazione di impotenza e paura che mi inghiottiva.

Ci siamo affidati al Corano e abbiamo pregato, supplicando Dio di proteggere noi, le nostre case e i nostri cari. Dormire quella notte è stato impossibile, perché i colpi di artiglieria sono proseguiti incessanti. I frammenti delle esplosioni hanno raggiunto il giardino di casa. Provate a immaginare: completa oscurità, bombardamenti continui, isolamento e disconnessione dal mondo. Quella notte è stata la più lunga della mia vita.

Lotta disperata

Il 26 ottobre, il giorno prima di questa tragedia, gli aerei israeliani avevano bombardato la casa di alcuni parenti nel campo profughi di Maghazi. Erano morte nove persone, tra cui sette bambini. I miei familiari erano fuggiti spaventati per le strade. Tra loro c’era una donna anziana, che ha perso il figlio, la nuora e i nipoti. È una persona gentile, spesso la vedevo ridere e ascoltavo le sue storie sulla mia infanzia. Mio fratello Karam, che si era appena iscritto a un dottorato in economia a Gaza, trasportava i feriti nella sua auto. Oggi le università sono ridotte in macerie.

La notte del 26 ottobre l’esercito israeliano ha preso di mira l’unico fornaio nel campo di Maghazi, che si è aggiunto al triste bilancio degli oltre undici forni bombardati in tutta la Striscia dopo il 7 ottobre. È evidente che la strategia di Israele è sterminare e affamare. Durante questo attacco ho afferrato la borsa con il mio passaporto e la mia carta d’identità, preparandomi a fuggire di nuovo. Ma stavolta non sapevo dove cercare rifugio. Il bombardamento del forno ha causato la morte di dieci civili. I frammenti hanno raggiunto una scuola dell’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi (Unrwa) dove si trovavano circa seimila sfollati dal nord della Striscia, uccidendo una persona.

Questo è solo un assaggio dell’illusione di “sicurezza” che Israele afferma di offrire nel sud della Striscia di Gaza.

Quando finalmente è tornata la connessione internet non ho provato gioia, ma sono stata sopraffatta da un senso di angoscia. Ho preso il cellulare per vedere come stessero amici e parenti. Sono andata sul mio account X (ex Twitter) per aggiornarmi su cosa fosse successo nei due giorni in cui ero stata tagliata fuori del mondo, e ho letto i messaggi che descrivevano gli orrori vissuti durante i bombardamenti. Ero ansiosa di conoscere gli sviluppi politici e l’entità della devastazione a Gaza, sperando di sentire una qualunque notizia su un cessate il fuoco. È stato sconfortante apprendere che i bombardamenti sarebbero proseguiti, e che non c’era alcun segnale di tregua in vista.

Il mondo forse non può capire quanto sia straziante stare in coda per quattro ore solo per comprare pane pagando l’equivalente di due dollari, e poi vedere il forno ridotto in macerie da una bomba. In simili situazioni si è costretti a ricorrere a metodi primitivi, come usare la legna per accendere un fuoco, in modo da dar da mangiare a cinquanta persone accalcate in un edificio a due piani. La disperata lotta per garantirsi una minima quantità di acqua potabile, appena sufficiente per la sopravvivenza, è una pena che pochi possono comprendere. E l’agonia di essere isolati dal resto del mondo, nel pieno dei bombardamenti navali e aerei israeliani, è un’esperienza al di là di ogni immaginazione. ◆ fdl

Aseel Mousa è una giornalista freelance che vive nella Striscia di Gaza.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1536 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati