Alla cerimonia di premiazione degli Oscar del 2020, dopo essere stato premiato come miglior attore, Joaquin Phoenix ha fatto un discorso insolito. Vestito con lo smoking d’ordinanza, ha espresso la sua gratitudine e ha elogiato gli altri candidati poi si è lanciato in un monologo. Nei tre minuti che aveva a disposizione, l’attore ha parlato dei problemi del mondo. L’ambientalismo, l’antirazzismo, i diritti degli indigeni, la parità di genere, la liberazione delle persone queer e i diritti degli animali, ha spiegato, non sono campagne isolate, ma aspetti diversi di un unico movimento. Ognuno è parte della “lotta contro l’idea che una nazione, un popolo, un’etnia, un genere o una specie abbia il diritto di dominare, controllare, usare e sfruttare senza conseguenze un’altra”.

Queste parole hanno fatto applaudire un pubblico particolarmente ansioso di mostrarsi illuminato. Il resto del discorso, tuttavia, non è stato accolto con altrettanto calore, soprattutto quando Phoenix ha concluso: “Ci sentiamo in diritto d’inseminare artificialmente una mucca e quando partorisce le portiamo via il suo vitello, anche se le sue grida di angoscia sono inequivocabili. E poi le prendiamo il latte che dovrebbe servire per i suoi piccoli e lo mettiamo nel caffè e nei cereali”. In sala, l’atto di accusa di Phoenix verso gli amati ingredienti della colazione degli Stati Uniti è stato accolto da un silenzio spaesato. Fuori, invece, i mezzi d’informazione si sono scatenati. “Joaquin Phoenix è animato dalle migliori intenzioni, ma il suo discorso non aveva né capo né coda”, ha titolato Vice. Vox lo ha chiamato “un epico sproloquio sociopolitico”. Usa Today ha definito le parole dell’attore “emozionanti, stimolanti e fuori di testa”.

gabriella giandelli

In effetti, se c’è una cosa che mette d’accordo la gente di tutti gli orientamenti politici è il disprezzo per i sostenitori “fuori di testa” dei diritti degli animali e per i vegani. Nel 2019, durante una conferenza stampa, il deputato repubblicano dello Utah Rob Bishop ha contestato il green new deal addentando in modo teatrale un cheeseburger: “Se passa la legge, questo panino verrà messo fuori legge”. I sostenitori del piano si sono affrettati a rispondere che non era vero, confermando lo status sacro della carne rossa.

I conservatori sono terrorizzati dalla prospettiva di una società che valorizzi e che davvero non trasformi in merce la vita (non fetale), ed è per questo che promuovono l’immagine della mascolinità carnivora. Purtroppo, sembra che la maggior parte dalla sinistra la pensi in modo simile: raramente si preoccupa della miriade di problemi dell’allevamento intensivo e spesso ha un atteggiamento di sufficienza o disprezzo verso chi lo fa. Recentemente, in una puntata del popolare podcast di sinistra Citations need­ed, i conduttori hanno fatto un’analisi dei personaggi vegetariani nella cultura popolare, con risultati prevedibilmente poco lusinghieri: erano regolarmente interpretati da donne ed erano quasi sempre insopportabili.

Questi stereotipi di genere non sorprenderanno chi ha letto Carne da macello. La politica sessuale della carne (Vanda Edizioni 2020), saggio del 1990 di Carol J. Adams in cui la storia del radicalismo ottocentesco s’intreccia con l’analisi delle tecniche pubblicitarie del novecento in un pionieristico lavoro di “teoria critica vegetariana femminista” (dopo aver letto Adams, sentir dire a una donna che si sente trattata come un “pezzo di carne” vi farà tutt’altro effetto). Oggi si ripete spesso che i movimenti per i diritti degli animali sono cominciati negli anni settanta con il filosofo Peter Singer, maschio e bianco. In realtà, molte culture e religioni non occidentali rifiutano i prodotti animali da millenni. Come ha detto in una recente intervista l’attivista e scrittrice Aph Ko, “la forza del suprematismo bianco è che ci spinge a credere che i bianchi hanno inventato tutto. Ovviamente, il veganismo non l’hanno inventato loro”. Nel mondo anglofono molte abolizioniste, suffragette e pacifiste avevano sposato la causa vegetariana già molto prima che entrasse in scena Singer; un esempio sono le coraggiose sorelle abolizioniste Sarah e Angelina Grimké, che già negli Stati Uniti dell’ottocento rifiutavano la carne perché sostenevano che così avrebbero accelerato “l’emancipazione della donna dai lavori di cucina”. Singer ha calpestato tutti questi precedenti distinguendo capziosamente tra le sue presunte argomentazioni razionali e le prese di posizione emotive (cioè femminili) del passato. Ai primi dell’ottocento fu coniata perfino una diagnosi, la “zoofilpsicosi”, per indicare i pazienti – in stragrande maggioranza donne, o così si riteneva – che soffrivano di un eccesso di preoccupazione per gli animali.

Quando il discorso di Phoenix è diventato popolare, confessiamo che, come tante altre persone, ci siamo sentite in imbarazzo, e non perché pensavamo che fosse isterico o sopra le righe. Ci siamo sentite in imbarazzo perché era stato violato il precetto che per anni avevamo cercato di seguire, cioè di non fare le vegane rompiscatole. Rovinando la festa a milioni di persone con le sue denunce sugli abusi verso gli animali, Phoenix ha fatto esattamente quello che noi abbiamo sempre disperatamente tentato di non fare, anche se su scala più modesta. Pur dichiarando pubblicamente il nostro veganismo, infatti, ci siamo sempre sforzate di non inimicarci il prossimo per timore di nuocere involontariamente alla causa. In molte occasioni sociali, o al ristorante, le persone ci chiedevano: “Ti dispiace se lo mangio?”, prima di azzannare quello che fino a poco tempo prima era il petto, l’ala o la coscia di un essere vivente.

Convinte che mentire fosse meglio di dare fastidio e raffor­zare lo stereotipo che i vegani sono dei predicatori insopportabili e arroganti, dicevamo sempre di no, ricacciandoci in gola quello che pensavamo pur di lasciar mangiare in pace il prossimo. Anziché fare la persona educata, Phoenix si è comportato come il classico vegano guastafeste, accompagnando il pubblico in uno sgradevole viaggio non solo al mattatoio, ma anche in una sala per l’inseminazione: ha parlato del latte e della violenza riproduttiva e di genere a cui è indissolubilmente legato. Ciò che ha reso così sconvolgente il suo discorso, in altre parole, è l’analisi femminista latente, che si riallaccia alle antiche e dimenticate radici del movimento per i diritti degli animali e – ci auguriamo – al suo futuro femminista e socialista. Siamo convinte, infatti, che il ruolo del consumo di prodotti di origine animale sia stato capito male e che la lente del femminismo possa aiutarci a inquadrare i diritti degli animali in una più grande critica socialista del capitalismo.

Il capitalismo trasforma i corpi in macchine. Come i loro predecessori nelle prime catene di montaggio, i lavoratori di oggi, dai magazzinieri di Amazon agli autisti di Uber, sono spinti a comportarsi come robot. Questo processo di meccanizzazione e standardizzazione investe non solo i corpi dei lavoratori, ma anche quelli delle donne non salariate, delle mucche, delle galline e dei maiali. Se i capitalisti del mondo sono in grado di esercitare il loro controllo sadico su ogni movimento di un essere umano impegnato a impilare scatole, immaginate il controllo che possono esercitare su una creatura senza diritti che vuole solo pascolare in pace.

Siamo convinte che la lente del femminismo possa aiutarci a inquadrare i diritti degli animali in una più ampia critica socialista del capitalismo

Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (Mimesis 2020), il classico del femminismo di Silvia Federici, mette in luce questa dinamica fondamentale, descrivendo il processo attraverso il quale il capitalismo ha lentamente trasformato la donna in una “macchina per la produzione di nuovi lavoratori”. A partire dal settecento, la privatizzazione della terra da parte dei ricchi negò ai contadini quella che era sempre stata una consuetudine: il diritto di accesso ai campi e ai boschi per la sussistenza. Non potendo pagare gli affitti esorbitanti imposti dai proprietari terrieri, migliaia di contadini abbandonarono le campagne in cerca di lavoro salariato. Le relazioni familiari furono ricalibrate per servire i nuovi bisogni del capitale, con gli uomini elevati al rango di percettori di salario e il resto della famiglia subordinato nel ruolo di persone a carico. Le donne che resistevano a questa servitù erano punite con la violenza sessuale sistematica, torturate come eretiche o streghe, e sottoposte a sorveglianza e controlli ancora più stringenti sulle loro scelte sessuali e riproduttive. Quello contro la recinzione dei terreni da parte dei proprietari, le enclosures, non fu solo un movimento per il controllo della terra, ma anche per quello dei corpi e delle loro capacità rigenerative. Un processo che, secondo noi, si estende agli animali non umani.

Prendiamo un maiale. Possiamo osservare da vicino la centralità della riproduzione in una fattoria in Gunda, un documentario del 2021 diretto dal regista russo Viktor Kosakovskij e prodotto da Joaquin Phoe­nix. Girato in bianco e nero, senza voce fuori campo né colonna sonora, il film è asciutto e obiettivo. Nella scena iniziale vediamo una scrofa madre, Gunda, che dà alla luce una cucciolata di maialini in una stalla piena di paglia. Assistiamo alla loro crescita mentre incontriamo brevemente altre creature della fattoria: una mandria di buoi che aspettano di essere liberati per andare a pascolare, un gruppo di galline che esplorano il cortile. Osserviamo Gunda mentre alleva i suoi piccoli, constatando quanta fatica e pazienza ci vuole per farli crescere. La madre li coccola, li annusa e li allatta, e i maialini diventano sempre più forti e vivaci. Verso la fine accade l’inevitabile. Arriva un furgone, i piccoli sono caricati su una cassa e di punto in bianco spariscono. Non vediamo mai gli umani né sappiamo cosa succede ai maialini. Per il resto del film rimaniamo insieme a Gunda, che cerca di scendere a patti con la sua perdita. Mentre corre nel porcile per controllare e ricontrollare, vediamo un animale derubato di qualcosa che non le è mai appartenuto veramente. Gunda è una proprietà, e così i suoi cuccioli. Nulla è dato o portato via; è solo posseduto e venduto.

Obiettivamente, per essere un maiale Gunda fa una bella vita, anche se, come mostra il film, non è una grande consolazione. La maggior parte delle scrofe – i maiali femmine, il cui unico ruolo nella vita è dare vita a getto continuo a nuovi maiali – vive in uno spazio non più grande di un frigorifero, cosa ancora più inquietante se si pensa che alcuni maiali superano i 220 chili di peso. Una scrofa trascorre gran parte della gravidanza in una gabbia di gestazione talmente piccola da permetterle di fare solo pochi passi. Poi viene spostata in una gabbia per il parto, che gli operatori del settore, con un certo sadismo, apprezzano per la sua “comodità”: la scrofa ha spazio solo per stare in piedi o sdraiata, con le mammelle che fuoriescono in una sezione separata in cui sono tenuti i maialini. Dopo cinque settimane, quando i piccoli le sono stati portati via senza tanti complimenti, è inseminata artificialmente e il ciclo ricomincia. Oltre ai traumi emotivi a cui è sottoposta, soffre continuamente d’infezioni urinarie e vaginali, diventa molto più esposta a malattie (ecco perché nel mangime ci sono gli antibiotici) e a disabilità fisiche dovute all’inattività. In altre parole, una scrofa vive in una sorta di distopia invalidante di violenza riproduttiva, in cui le sue capacità di nutrire e allevare i piccoli si riducono a processi meccanici.

Questo processo è ufficialmente noto con il nome di produzione zootecnica. “Il consolidamento e l’assottigliamento continuo dei margini di guadagno hanno spinto l’industria della carne a cercare nuove efficienze e profitti ancora inesplorati nei corpi degli animali d’allevamento”, scrivono Gabriel N. Rosenberg e Jan Dutkiewicz in un articolo per The New Republic. L’inseminazione artificiale è stata un progresso fondamentale, e dopo la seconda guerra mondiale è diventata pratica comune per aumentare la produttività dei bovini da latte. Oggi, migliaia di lavoratori sottopagati passano le giornate a inserire con la forza oggetti nei genitali delle femmine animali per ingravidarle: per i bovini, il processo prevede che un tecnico infili il braccio nell’ano della mucca per appiattire la cervice bovina prima dell’inserimento della cosiddetta pistola inseminatrice. Questa pratica garantisce agli allevatori che “gli animali si riproducano secondo l’orologio del mercato anziché di quello biologico”, spiegano Rosenberg e Dutkiewicz. Il travaglio è indotto per fare avvenire il parto durante l’orario di lavoro. Nel sistema mercificato, i cicli che seguono i cambiamenti ormonali di interi allevamenti animali possono essere sincronizzati in un processo standardizzato, che produce risultati standardizzati.

In inglese la zootecnia si indica con l’espressione animal husbandry, strettamente legata al matrimonio (husband significa marito). È un termine calzante se pensiamo allo sfruttamento sessuale, riproduttivo ed economico a cui sono sottoposti gli animali. Il matrimonio, in fondo, non nasce solo come istituto del sistema patriarcale ma anche come un modo per trasferire la proprietà di terra, animali, ricchezza e donne. Un marito era un padrone che aveva il diritto di fare dei suoi beni ciò che voleva, in una dinamica di potere che vale ancora oggi quando le compagne e le proprietà di un marito sono creature non consenzienti. Eppure, per qualche motivo, i consumatori di tutti gli orientamenti politici sono tuttora convinti che gli animali ci offrano carne, latte e uova, che la relazione tra animale addomesticato e allevatore sia naturale e che possa essere giustificata se è incentrata sulla cura e sull’amore. La narrazione dell’attaccamento emotivo svolge un ruolo centrale nel mito del consumo dei prodotti di origine animale, esattamente come nel mito del matrimonio e della casa. Le storie rassicuranti raccontate ai bambini, e a cui si aggrappano moltissimi adulti, si basano sulla falsa premessa che gli animali forniscano senza sforzo carne, latte e uova agli allevatori in cambio di cura e protezione, evocando una parvenza di scambio equo. Ci sono sicuramente allevatori che si prendono cura dei loro animali e li amano, ma l’amore non è un sentimento apolitico, soprattutto quando l’amato è una merce.

Come ci ha raccontato una volta Federici, il suo lavoro di studiosa è nato dall’attivismo; la teoria ha seguito la pratica. Negli anni settanta – più o meno nello stesso periodo in cui Peter Singer elaborava le sue teorie sui diritti degli animali – Federici faceva parte del movimento Wages for housework (Salari per il lavoro casalingo) di New York, un’alleanza internazionale di femministe che chiedevano di essere retribuite per il lavoro in casa. Filosoficamente, il loro obiettivo era allargare l’ambito del marxismo classico, mettendo in luce la centralità del lavoro basato sul genere nel capitalismo, in particolare la riproduzione e la cura dei bambini, che di solito non erano né valorizzati né pagati. Il focus del marxismo sul lavoro salariato, osservavano, non teneva conto di tutte le forme non salariate che mandano avanti la società e l’economia. Sì, il lavoratore percepisce il salario e poi compra le merci. Ma chi è che dà alla luce e cresce il lavoratore? Chi cucina le merci? Come sottolineavano le attiviste di Wages for housework, alle donne e alle mogli era sempre stata negata una retribuzione perché la natura femminile prevedeva di per sé una devozione incondizionata alla cura dell’altro: si presupponeva che le donne lavorassero per amore.

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In modo simile, ci viene propinata un’immagine sanificata e idealizzata della vita di campagna. Come nel caso del lavoro umano, le dimensioni riproduttive della produzione di carne, latte e uova sono troppo spesso ignorate, probabilmente perché i tormenti patiti dagli animali contrastano con l’immagine bucolica che rassicura i consumatori.

Ma siamo realisti: è impossibile avere un rifornimento costante di carne, latte o uova fresche senza la riproduzione costante di nuovi animali. Oggi nel mondo ci sono più di venti miliardi di bovini, ovini e polli, e ognuno di loro è uscito da un uovo o da una vagina. L’importanza dei cicli riproduttivi femminili in questa infinita filiera delle forniture di creature viventi è particolarmente evidente nel settore caseario e in quello delle uova. Anche se le confezioni dei supermercati vorrebbero far pensare al contrario, uova e latte non sono semplicemente merce, sono componenti centrali di un processo generativo: quelle che Adams chiamava “proteine femminizzate”. La produzione delle uova, ovviamente, dipende da uccelli dotati di ovaie. Le mucche non fanno latte spontaneamente: deve nascere un piccolo affinché una mucca lo allatti. Quando le mucche non possono più partorire, o quando le galline non depongono più un numero sufficiente di uova al giorno, sono uccise. Tutto questo vale sia per la piccola azienda agricola gestita “in modo umano” sia per il grande impianto industriale che ospita centinaia di migliaia di animali.

Negli Stati Uniti, prima di essere mandata al macello una mucca produce in media 28 litri di latte al giorno, circa due volte e mezzo in più rispetto a cinquant’anni fa. Questo latte è succhiato dai suoi capezzoli non dal suo vitello, che ne richiede una quantità molto più piccola, ma dalle macchine. Una mucca da allevamento produce talmente tanto latte che il più delle volte rimane zoppa per malattie alle ossa. E probabilmente soffrirà per tutta la vita di attacchi di mastite, una dolorosissima infezione che qualunque donna che abbia allattato conosce e teme.

Appena venuti al mondo, tutti gli animali degli allevamenti sono divisi in base al sesso. Nei vivai i pulcini sono smistati da migliaia di lavoratori, che sono tra i più esposti a infortuni da stress per la mansione ripetitiva. Le femmine, considerate preziose per le uova che producono durante il loro ciclo riproduttivo, sono messe in un’area per la deposizione e passano le loro brevi vite in uno spazio più piccolo dello schermo di un computer portatile. I maschi, invece, sono semplicemente scarti e sono immediatamente smaltiti con metodi che vanno dal soffocamento alla folgorazione, fino alla macerazione dentro un grande tritacarne. Per i bovini, l’inconveniente della nascita dei maschi ha portato all’invenzione dell’industria della carne di vitello, un modo per le aziende di creare guadagni da una produzione illimitata di giovani animali altrimenti inutili.

Cosa vorrebbe dire rispettare e onorare gli animali, come c’invita a fare la politologa Claire Jean Kim? Se il femminismo socialista esprime il suo punto di vista attraverso la battaglia per il lavoro domestico retribuito, noi ovviamente non sosteniamo che gli animali vadano considerati alla stregua di lavoratori degni di salari e altri tipi di premio. Non c’è un modo per ricompensare Gunda o la mucca di cui abbiamo imparato a non sentire “le grida di angoscia”. Piuttosto, seguendo Marx, crediamo che tutte le creature possiedano un’“essenza di specie” che le modalità di produzione del capitalismo alienano in vari modi. Rispettare l’essenza di specie di una mucca, di una scrofa o di una gallina significa anzitutto creare un regime giuridico ed economico che le riconosca come esseri viventi anziché come cose.

Il socialismo femminista, secondo noi, offre un quadro di riferimento prezioso – e fino a questo momento sottoutilizzato – per capire la natura crudele e distruttiva dell’industria dei prodotti di origine animale. Solo allargando l’analisi femminista e socialista oltre l’ambito umano potremo capire in pieno la profondità della dipendenza del capitalismo dalla costrizione, dal controllo e dalla privatizzazione della capacità rigenerativa della vita e perché i conservatori, e la cosiddetta alt-right in particolare, considerano i vegani come una minaccia esistenziale. La parola milk in inglese è sia un sostantivo, “latte” (“fluido bianco opaco ricco di grassi e proteine, secreto dalle femmine dei mammiferi per il nutrimento dei loro piccoli”, secondo la definizione dell’Oxford english dictionary) sia un verbo che significa “mungere”, sfruttare per ricavare un profitto. Forzare e mercificare la riproduzione degli animali umani e non umani è il modo in cui il capitalismo riproduce sé stesso. Come ha spiegato Federici, “la classe capitalista ha sempre bisogno di una popolazione priva di diritti nelle colonie, in cucina, nelle piantagioni”. E, come mostrano questi esempi, anche nelle fattorie e nei mattatoi.

Secondo Federici e altre esponenti del femminismo socialista, il capitalismo si è sviluppato incoraggiando o costringendo le donne ad accettare come naturale, inevitabile ed eterno il loro ruolo di nutrici disinteressate. Nel corso dei secoli diverse generazioni si sono ribellate e hanno rivendicato possibilità e aspettative diverse per quelle che erano designate come femmine: qualcosa di più di una vita di piatti, pannolini e rapporti sessuali a comando. Le donne hanno chiesto di avere il controllo di come e se scegliere d’impegnarsi nel sesso, nella gravidanza, nell’aborto, nella nascita e nell’allattamento. Tuttavia, il capitalismo ci ha convinte ad abbassare le aspettative per le creature nostre simili. Una prospettiva femminista e socialista c’impone di chiederci come siamo arrivate a considerare normale la meccanizzazione violenta e il controllo finalizzato al profitto degli uteri, delle mammelle e delle capacità riproduttive di altri animali, e l’enorme ingiustizia e devastazione che ne derivano.

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Nel 1758, il naturalista svedese Linneo introdusse nella tassonomia zoologica la parola mammalia, che letteralmente significa “dotato di mammella”. Questo passaggio segnò l’allontanamento da una tradizione millenaria con l’abbandono del canonico termine aristotelico quadrupedia e, cosa ancora più radicale, la categorizzazione degli esseri umani come animali. Tuttavia, come sottolinea la storica della scienza Londa Schiebinger, gli umani furono ricondotti alla famiglia animale solo per una parte del corpo specificamente connotata dal genere e, all’epoca, anche dalla razza. Come osserva Schiebinger, le mammae da latte sono funzionali solo in metà degli animali del gruppo: c’erano altre distinzioni, potenzialmente più universali, che avrebbero potuto essere evidenziate (potevamo per esempio essere la specie pilosa, dotata di peli, o aurecaviga, dalle orecchie cave).

Il seno aveva un particolare potere politico e sociale, e soprattutto, grazie alla capacità di produrre latte e nutrire i piccoli, era già considerato una caratteristica animale. In altre parole, era una parte del corpo che poteva creare un collegamento accettabile tra esseri umani e animali garantendo la superiorità del maschio. Il corpo degli uomini non era esplicitamente legato a quello degli animali; il loro cervello, al contrario, era ciò che distingueva la nostra specie (il termine utilizzato da Linneo era Homo sapiens, “uomo dotato di ragione”). Come spiega Schiebinger, quindi, il termine “mammifero” non può essere compreso senza una riflessione più estesa sulle ansie e le dinamiche politico-economiche di un’epoca in cui le donne cercavano piena cittadinanza e potere al di fuori del focolare domestico. “Mammifero” serviva a ricordare a tutte le donne qual era il loro ruolo nella natura e nella società: quello di produttrici e allattatrici di bambini.

Il termine “mammifero” può essere quindi considerato come il segno di un ordine gerarchico capitalista, patriarcale, razzista e specista che mette la masco­linità al di sopra di ogni cosa, imbevendo di questi significati il latte che il popolo di destra consuma con tanto orgoglio. Da femministe socialiste, tuttavia, possiamo scavare nel significato della parola e interpretarla diversamente, come un richiamo al cameratismo. Le altre specie meritano non solo la nostra compassione perché soffrono, ma anche la nostra solidarietà perché sono sfruttate e derubate. Il nostro status di mammiferi serve a ricordarci la nostra comune animalità e il fatto che la nostra economia dipende dal latte umano e d’innumerevoli altre specie.

Come dimostra l’esempio dell’estrema destra, lo specismo danneggia in ultima analisi gli esseri umani, perché caratterizza inevitabilmente i rapporti tra le persone, giustificando l’oppressione e lo sfruttamento, non diversamente da come il razzismo ha conseguenze devastanti e perfino mortali per i bianchi, o da come la misoginia danneggia gli uomini. Possiamo osservare questa evidenza nei comportamenti rivoltanti del “partito del latte”, ma anche nelle pratiche quotidiane dell’industria agroalimentare e il suo trattamento spietato degli esseri umani. Le comunità povere nere, immigrate e disabili sono esposte in modo sproporzionato alle conseguenze sanitarie negative della produzione della carne e dagli abusi sul lavoro che caratterizzano il settore. I traumi causati da queste industrie alle persone e agli animali non sono gli stessi, ma sono collegati tra loro. Siamo tutti parte dello stesso sistema capitalistico razzista, sessista, coloniale ed ecologicamente catastrofico.

Angela Davis, scrittrice e attivista, ha riflettuto su questo tema. “Dare la priorità agli umani crea anche una serie di definizioni restrittive su chi è considerato umano, e la brutalizzazione degli animali è collegata alla brutalizzazione degli animali umani”, ha detto Davis, spiegando che il suo veganismo si riallaccia a una visione antirazzista, femminista, abolizionista e anticapitalista intesa in senso estensivo, trasformativo e radicalmente democratico. “Se vogliamo impegnarci nella battaglia per la libertà e la democrazia, dobbiamo riconoscere che le istanze diventeranno sempre più ampie”, osserva. “Non sto dicendo che la traiettoria della storia è automatica. Assistiamo però a una concezione sempre più grande della natura della democrazia. E io non vedo come possiamo escluderne i compagni non umani con cui condividiamo il pianeta”. Davis prevede che la questione della solidarietà tra specie “sarà un terreno di lotta molto importante nel prossimo futuro”.

La tesi radicale di Davis è sostenuta da un numero sempre più nutrito di studi che prendono in esame i complessi intrecci tra le gerarchie umane basate su razza, sesso e disabilità, e la degradazione degli animali. Secondo Syl Ko, che insieme alla sorella Aph Ko ha scritto sulle intersezioni tra ostilità verso i neri e specismo, le concezioni occidentali dell’umano e dell’animale sono “categorie di razza”, che sono state modellate per oltre cinque secoli dalla gerarchia razziale. I popoli oppressi sono stati storicamente paragonati agli animali, in contrasto con un’immagine privilegiata e idealizzata della mascolinità bianca, innalzata ad apice dell’umanità. Nelle parole di Claire Jean Kim, “la razza è espressa anche come misura dell’animalità, un sistema di classificazione che ordina i corpi umani in base a quanto sono animali e non umani, con tutte le conseguenze che ciò comporta”. Dunque, come ha osservato Aph Ko, riconoscere la gerarchia di specie non vuol dire aggiungere una nuova oppressione a una lunga serie d’ingiustizie sociali, ma riconoscere che le categorie umane di differenza sono state influenzate dall’idea dell’animalità, nello specifico da un’animalità sminuita e offesa. Proprio per questa storia intrecciata, affermano le sorelle Ko, i sostenitori dei diritti degli animali farebbero bene a considerare la giustizia razziale come il cuore del loro lavoro e viceversa, in una prospettiva chiamata “veganismo nero”, che si pone in netto contrasto con l’ideologia misogina dei suprematisti bianchi bevitori di latte.

La liberazione umana e quella degli animali sono quindi intrecciate tra loro; la brutalizzazione di tutti gli esseri viventi, come ha detto Davis, è collegata. Proprio come noi chiediamo alla sinistra di allargare il suo ambito d’interessi, i sostenitori dei diritti degli animali dovrebbero impegnarsi in un’analisi più ampia, che tenga conto delle interconnessioni tra temi apparentemente separati, dagli spudorati maltrattamenti dei lavoratori agricoli, in maggioranza immigrati, che coltivano il nostro cibo a un sistema carcerario razzista e criminale che tiene in cella milioni di persone, all’oscena concentrazione di ricchezza e potere consentita dalla nostra economia imperiale. Anche se crediamo che mangiare più vegetali sia essenziale per ridurre le sofferenze e mitigare gli effetti peggiori del clima, sappiamo anche che modificare ciò che mettiamo nel piatto non è sufficiente, e infatti il veganismo non è mai stato solo un movimento per il cibo. La grande industria è ben felice di venderci alimenti biologici, hamburger vegetali e costosissimo “latte” di noce insieme ai tradizionali prodotti animali, purché possa continuare a pagare salari da fame, a controllare le filiere e la proprietà intellettuale, e a guadagnare. Non basta avere prodotti vegani da consumare, serve un cambio di paradigma.

“La visione della natura cresciuta sotto il regime della proprietà privata e del denaro è un autentico disprezzo e un concreto degrado della natura”, osservava Karl Marx nel 1843. Pur non avendo mai dato seguito a livello sistematico a questa intuizione, Marx si diceva d’accordo con le parole di Thomas Müntzer, il pastore protestante radicale del cinquecento: “Tutte le creature sono state trasformate in proprietà: i pesci nell’acqua, gli uccelli nell’aria, le piante sulla terra, tutte le cose viventi devono anch’esse diventare libere”. Naturalmente, Marx non era un sostenitore dei diritti degli animali. La sua descrizione più famosa di come sarebbe stato il comunismo – “La mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare” – non ricorda certo un paradiso vegano. Con la notevole eccezione di Cuba, i paesi socialisti sono stati rapaci con gli animali e predatori con il mondo naturale quanto quelli con economie di mercato. Ciò nonostante, crediamo che le altre creature non potranno mai emanciparsi all’interno di un paradigma capitalista. E crediamo che lo stesso valga per gli esseri umani all’interno di un sistema antropocentrico e specista.

Tra l’agricoltura, l’allevamento e le colture destinate alla produzione di mangimi, oggi gli allevamenti intensivi divorano il 40 per cento della superficie abitabile del mondo. L’industria agroalimentare non è solo una delle cause principali della deforestazione e dei cambiamenti climatici (secondo un recente studio, le emissioni di gas serra delle grandi aziende casearie e produttrici di carne supereranno presto quelle delle più grandi compagnie petrolifere), ma ci espone al rischio di future pandemie con la diffusione di nuove zoonosi e batteri resistenti agli antibiotici, tra cui patogeni in confronto ai quali il covid-19 sembrerà un raffreddore. Le industrie zootecniche sono quindi tra le principali cause di estinzione di massa, con 150 specie che spariscono ogni giorno, mentre gli esseri umani e il bestiame sono più del 96 per cento dei mammiferi della terra. La sostituzione delle creature selvatiche con miliardi di esseri viventi geneticamente simili diminuisce radicalmente la biodiversità e aumenta la nostra vulnerabilità ai virus. Il trattamento e il destino degli animali addomesticati sono indissolubilmente legati alla sopravvivenza di quelli selvatici e alla nostra.

In una lettera del 1875, Friedrich Engels osservava che la lotta della classe operaia poteva essere favorita da una concezione estesa della solidarietà che “abbracciasse tutta l’umanità e la opponesse, come una società di fratelli che vivono nella solidarietà, al resto del mondo: il mondo dei minerali, delle piante e degli animali”. Oggi, molte persone di sinistra restano legate all’idea di dominare la natura in nome del progresso sociale. Farebbero bene a riflettere sulla mentalità coloniale da cui è nato questo antagonismo distruttivo. Le società e le filosofie politiche dei popoli indigeni hanno sempre seguito un altro approccio: la terra non è una risorsa da consumare, ma qualcosa di cui gli esseri umani fanno parte e con cui sono in relazione. In molte comunità native, le ecologie e le specie locali sono considerate come nazioni verso le quali gli umani hanno delle responsabilità. Anche se la visione del mondo indigena e quella vegana occidentale a volte sono in tensione, entrambe contestano l’idea che la natura – e gli animali – siano solo proprietà: possono quindi essere preziose alleate contro l’industria agroalimentare. I tentativi antropocentrici di dominare la terra hanno causato il cambiamento climatico, una concentrazione della ricchezza sempre maggiore e il rischio di nuove pandemie. Non c’è modo di essere solidali contro il mondo se è nel mondo che vogliamo abitare.

Come Carol J. Adams, vediamo nel veganismo “un atto dell’immaginazione”, un inizio e non una fine. Il veganismo è una categoria aspirazionale, un riconoscimento di valori che nel mondo attuale non possono manifestarsi pienamente. Rifiutarsi di consumare prodotti animali non è un atto di negazione, ma un impegno proattivo a lavorare per creare una società che favorisca l’emancipazione, più ugualitaria ed ecologicamente sostenibile. Questo processo di trasformazione strutturale può essere aiutato da un cambiamento della percezione del sé. Identificarsi con altre creature, riconoscere Gunda e i suoi maialini come creature e non come merci, continuando a rispettare le nostre molteplici differenze è un modo per sfidare l’eterna politica capitalista del divide et impera. ◆ fas

Sunaura Taylor
è un’artista, ricercatrice e scrittrice statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale (Edizioni degli Animali 2021)

Questo articolo è uscito sul trimestrale statunitense Lux Magazine con il titolo Our animals, ourselves.

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Questo articolo è uscito sul numero 1455 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati