Nella primavera del 1822 Charles Lamb, un impiegato della Compagnia delle Indie orientali a Londra (uno dei primi uffici della storia) si mise al tavolo per scrivere una lettera a un amico. Se lavorare in un edificio all’avanguardia lo entusiasmava ed era felice di far parte di un’istituzione che nei secoli successivi avrebbe trasformato il mondo, di certo non lo dava a vedere. “Non sai quant’è faticoso”, scrive Lamb, “respirare l’aria di quattro pareti oppressive, senza tregua, giorno dopo giorno, tra le dieci e le quattro, le ore più belle della giornata”. La lettera diventa via via più cupa: Lamb spera che gli rimanga “qualche anno tra la scrivania e la tomba”. Tanto “sono la stessa cosa”, conclude.
Il mondo di cui parlava Lamb non esiste più. La famigerata Compagnia delle Indie orientali sprofondò nell’ignominia a metà dell’ottocento, e il suo lascito più famoso, il dominio coloniale britannico in India, si è sgretolato un secolo dopo. Ma la lettera suona ancora familiare, perché mentre altri imperi sono crollati, l’impero dell’ufficio continua a regnare incontrastato sulla vita lavorativa moderna.
Gli uffici erano il luogo dell’ozio istituzionalizzato. I dirigenti cercavano di far lavorare i loro sottoposti mentre questi facevano di tutto per sottrarsi ai loro doveri
È un impero dalle dimensioni sbalorditive, che conta una popolazione di centinaia di milioni di persone in ogni angolo del pianeta e domina gli orizzonti delle nostre città: i palazzi più alti non sono più cattedrali o templi, ma contenitori multipiano brulicanti di lavoratori. Questo impero condiziona le nostre vite. Se siete tra i suoi laboriosi sudditi, è probabile che passerete più tempo insieme all’insopportabile collega alla vostra destra che con vostra moglie o vostro marito, i vostri amanti o i vostri figli.
O meglio, fino a poco tempo fa era così. Questa primavera, quasi da un giorno all’altro, gli uffici di tutto il mondo si sono svuotati. A New York e a Parigi, a Madrid e a Milano, gli _open space _attendono invano pendolari che non arriveranno mai. Gli ascensori vuoti scorrono su e giù annunciando i numeri dei piani e spalancando le porte su pianerottoli vuoti; i distributori dell’acqua gorgogliano, refrigerando acqua che nessuno berrà. La vita in ufficio si è fermata.
Già prima del covid-19, questo impero aveva cominciato a traballare un po’. Con l’aumento degli affitti, la rivoluzione digitale e la crescente domanda di lavoro flessibile, il suo popolo stava lentamente migrando verso altri paesi. Più della metà della forza lavoro statunitense lavorava già da casa, almeno per una parte del tempo. In tutto il mondo, il lavoro a distanza era in costante aumento da un decennio e gli esperti prevedevano che sarebbe aumentato ulteriormente. Però nessuno immaginava un cambiamento così drastico tanto in fretta.
È troppo presto per dire se l’ufficio è morto. Come spesso accade quando siamo di fronte a una perdita improvvisa, il nostro giudizio è offuscato da emozioni contrastanti. Mentre ci prepariamo a un’altra giornata di _smart working _indossando i pantaloni della tuta, il sollievo di esserci liberati dagli spostamenti quotidiani e il piacere di voltare le spalle a quello che Philip Larkin chiamava “il rospo del lavoro” si tinge di rimpianto e nostalgia.
Ma non dobbiamo lasciarci confondere dal sentimentalismo. Gli uffici sono sempre stati spazi profondamente imperfetti. Quelli della Compagnia delle Indie orientali, tra i primi al mondo, furono costruiti più per bisogno di rappresentanza che per reali esigenze burocratiche. Erano omelie scolpite nella pietra, dove la solidità dei gradini di marmo e l’eleganza delle colonne palladiane servivano a proiettare all’esterno un senso di produttività ed efficienza. Era una sciocchezza, ovviamente. Creati per garantire efficienza, gli uffici erano il luogo dell’ozio istituzionalizzato. In una specie di corsa agli armamenti, i dirigenti cercavano di far lavorare i loro sottoposti mentre questi facevano di tutto per sottrarsi ai loro doveri. All’East India house, dove lavorava Lamb, il controllo ossessivo dei dettagli arrivava ai livelli di un call center di oggi. All’inizio dell’ottocento la compagnia aveva introdotto un libro di presenze che i dipendenti dovevano firmare quando arrivavano, quando se ne andavano e poi ogni 15 minuti durante la giornata. In realtà, non serviva a molto. “La cosa infastidisce moltissimo Dodwell”, scrive Lamb. “A volte deve andare a firmare sei o sette volte mentre legge il giornale”.
I primi uffici furono quelli dei governi o di enti quasi governativi come la Compagnia delle Indie orientali. Per gestire un paese, figuriamoci un impero, servivano un sacco di scartoffie, e governare era più semplice se tutti i funzionari erano nello stesso posto. Ma il vero cambiamento arrivò con la rivoluzione industriale.
Carbone, acciaio e vapore cominciarono a far girare sempre più velocemente le ruote dell’industria tessile inglese e le ferrovie si diffusero nelle campagne. I nuovi treni a vapore portavano nelle città un numero sempre maggiore di lavoratori che dalle loro scrivanie e dai banconi cominciavano a svolgere le professioni accessorie – finanza, diritto, commercio al dettaglio – nate per sostenere l’industria pesante. I ritmi della campagna diventarono un ricordo del passato. Il lavoro, che prima era frammentario e spesso dipendente dal clima, diventò il tessuto della vita stessa.
L’elemento di maggiore discontinuità dell’ufficio non è tanto il luogo fisico in sé ma il tempo che passiamo al suo interno. Questo aspetto era estraneo a molte società del passato. Mary Beard, professoressa di studi classici all’università di Cambridge, spiega che le classi privilegiate degli antichi romani si sforzavano di staccare la spina il più possibile: “La nostra divisione tra tempo libero e lavoro nel mondo romano era invertita. Oggi passiamo la maggior parte del tempo a lavorare, e quando non lavoriamo ci dedichiamo al tempo libero”. A Roma per le élite era il contrario: “Lo stato normale delle cose era l’otium, il tempo libero. Al di fuori del tempo libero ci si occupava degli affari, o negotium”. Mentre la parola “affari” fa pensare immediatamente all’attività e al profitto, il neg-otium latino (non svago) ha un senso quasi rancoroso di piacere negato.
I romani non erano costretti ad andare in un posto specifico per lavorare. Le tavolette e i pennini erano portatili come i nostri tablet, e loro ne approfittavano. Duemila anni fa, lo scrittore e avvocato Plinio il Giovane scrisse una lettera al suo amico Tacito in cui gli spiegava di aver scoperto un nuovo modo di lavorare. Invece di occuparsi dei suoi affari alla scrivania, un giorno aveva deciso di conciliare il lavoro con la caccia al cinghiale. Si era seduto vicino alle reti “e con me non erano lo spiedo o la lancia, ma le tavolette e lo stilo”. Dopo essersi dilungato sui piaceri del suo metodo, Plinio ne mette in evidenza la straordinaria produttività: “Fa meraviglia come l’animo si scuota per l’agitarsi e il muoversi del corpo”. Quindi conclude consigliando a Tacito: “Quando andrai a caccia ti sarà lecito, sul mio esempio, di portar con te anche le tavolette”.
Pochissimi impiegati hanno potuto godere di questi privilegi. Nel novecento, gli architetti e gli ingegneri che in passato avevano progettato le fabbriche spostarono la loro attenzione sugli uffici. Le parti mobili di queste macchine erano persone in carne e ossa e la produzione era semplicemente carta, ma si riteneva che i princìpi fossero gli stessi. Negli Stati Uniti squadre di esperti convinti che un ufficio ben organizzato fosse una cosa desiderabile in sé annotavano, cronometro alla mano, il tempo necessario a portare a termine ogni compito assegnato. Qualsiasi attività che facesse spostare ulteriormente in avanti la lancetta veniva depennata dai loro taccuini. Secondo Frederick Taylor, che alla fine dell’ottocento portò in fabbrica i primi studi sul tempo e il movimento, i lavoratori rendevano di più quando erano seduti in file di scrivanie, come in una sala per gli esami a scuola. Poco importa se altri studi poi dimostrarono che i lavoratori rendono di più quando vengono messi sotto osservazione per capire quanto rendono. Era nato l’ufficio open space.
Gli studi recenti sul tempo e sul movimento legati all’ufficio danno risultati scoraggianti. Il lavoro d’ufficio occupa non solo gran parte del nostro tempo, ma la parte migliore, le ore in cui siamo svegli e vivi. Alla casa e ai nostri cari rimangono gli scarti. Secondo uno studio della Bain & Company del 2014, la maggior parte dei manager passa almeno venti ore alla settimana in riunione. Nell’arco di una vita significano quasi cinque anni. La maggior parte di queste riunioni, scopriamo tristemente a posteriori, possono essere tranquillamente evitate.
Ma lavorare non è mai stato davvero lo scopo degli uffici. Nel 2004 Corinne Maier, una psicoanalista francese che all’epoca lavorava per il colosso francese dell’elettricità Edf, scrisse un libro intitolato Buongiorno pigrizia (Bompiani 2005). Il saggio, una critica della cultura aziendale, diventò all’istante un best seller internazionale. Lungi dall’aiutare l’efficienza, dice Maier, gli uffici sono “inutili” perché i lavoratori “perdono un sacco di tempo a partecipare alle riunioni e a parlare in aziendalese, ma in realtà fanno pochissimo”. Lei per prima si era accorta che riusciva a fare tutto quello che doveva “in due ore durante la mattinata”. Nel tempo che le restava si dedicava ai suoi progetti, come la stesura di una tesi universitaria e dei suoi libri. “Ero molto efficiente”, scherza. La Edf, che evidentemente aveva in mente un altro tipo di efficienza, la sottopose a un provvedimento disciplinare.
In generale scrivere della vita in ufficio non garantisce la fama immediata, almeno in occidente. Le lettere di Lamb sono emblematiche. Il destinatario della lettera citata prima era William Wordsworth, il grande poeta romantico, che passava le giornate a camminare nel Lake District e riempiva le sue pagine di narcisi danzanti. Lamb, invece, passava le sue giornate nel quartiere finanziario di Londra ad annotare sulla carta il prezzo del tè. La nostra vita sembra quella di Lamb, ma è di Wordsworth che ci ricordiamo di più.
Non è stata solo la poesia a snobbare la vita in ufficio, ma anche la narrativa (la Cina, dove autori di grande successo scrivono libri con titoli accattivanti come Il taccuino del dipendente pubblico, è un’eccezione). Il tema è stato trattato da grandi scrittori, tra cui Balzac, Dickens, Flaubert, Melville e Kafka, ma sempre con intento satirico più che celebrativo. Lo scrittore statunitense Joshua Ferris è stato elogiato dalla critica per il suo romanzo E poi siamo arrivati alla fine (Beat 2010), scritto tutto in prima persona plurale come a sottolineare l’annullamento della personalità dell’individuo nell’identità collettiva dell’azienda. Ma il più delle volte l’ufficio, che è sempre presente nella nostra vita, è il grande assente della letteratura.
I poeti sono i più caustici. John Betjeman si augura che cadano le bombe e “facciano in mille pezzi / quelle mense luminose e climatizzate”. Nella Terra desolata, T.S. Eliot (che aveva lavorato alla Lloyds Bank) descrive la folla di pendolari che attraversa il London bridge come un girone dantesco: “Così tanta, ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta”. Walt Whitman si prende gioco dei commessi, uomini “di gamba corta, faccia di gesso e petto vuoto”.
C’è un malcelato senso di superiorità in questi attacchi, ma i motivi per criticare gli uffici sono tanti. Dal punto di vista architettonico, gli esempi più recenti spesso sono imbarazzanti. Mentre nell’antica Roma c’era il Colosseo, nella Firenze rinascimentale la cupola del Brunelleschi e a Costantinopoli la basilica di Santa Sofia, noi oggi abbiamo una serie di scatole intercambiabili di vetro e acciaio. Il motivo, dice il designer britannico Thomas Heatherwick, è che la progettazione degli uffici – e in realtà di tutti gli edifici pubblici – si è “impigrita”. In passato, spiega, il luogo di lavoro “poteva permettersi di essere semplicemente una scrivania”, così come un negozio poteva essere “un posto qualsiasi pieno di pile di calzini o di mutande”. Con la rivoluzione digitale questa pigrizia non possiamo più concedercela. Oggi, dice Heatherwick, dobbiamo avere una buona ragione per uscire di casa, altrimenti “perché dovremmo farlo?”. È ora che l’ufficio si dia una sistemata.
Come un papà in discoteca, da qualche tempo l’ufficio ci sta provando. Alcuni coraggiosi architetti sono riusciti a rompere gli schemi progettando edifici a forma di cetrioli, grattugie per formaggi e walkie-talkie, e questo solo a Londra. Per ravvivare un po’ gli spazi interni, le startup hanno introdotto tavoli da ping-pong e vasche con le palline (“divertimenti stupidi”, commenta altezzoso Heatherwick). Poi hanno cominciato a offrire pasti gratis ai dipendenti nel tentativo di tenerli perennemente avvinghiati a sé. Perché cenare a casa quando l’azienda ti offre gratis un piatto migliore della ciotola di noodle che ti aspetta in frigorifero? Poi è arrivata WeWork, una società di sub-locazione che per qualche misterioso motivo è diventata un fenomeno di culto distribuendo gratis biscotti e birra. Forse c’entrava il fatto che l’amministratore delegato era Adam Neumann, uno che sembrava un Cristo uscito dalle fabbriche di giocattoli della Mattel. Per un po’ tutti hanno creduto in Neumann. Poi, a un certo punto, hanno smesso. L’anno scorso, la capitalizzazione di mercato di WeWork è scesa a un sesto dei 47 miliardi di dollari ipotizzati un tempo e Neumann si è dimesso. Per fare un ufficio, ovviamente, non basta offrire qualche snack. Secondo Heatherwick l’ufficio deve essere un luogo d’ispirazione, un “tempio”, un luogo di bellezza che possiamo ammirare, perfino amare. Anche se la sua azienda ha un ufficio, Heatherwick preferisce definirlo uno studio. La parola ufficio, dice, “mi fa cadere le braccia”.
L’ufficio può essere non solo un’offesa per gli occhi ma anche dannoso per il corpo. Stare seduti non è proprio come fumare, ma di certo non fa bene alla salute. Passare tutto il tempo su una sedia fa aumentare il rischio di malattie cardiache, diabete di tipo 2, alcuni tumori e tutti i tipi di mal di schiena. Un altro problema dell’ufficio è che cristallizza le disuguaglianze sociali. I capi tendono a scegliere dipendenti a loro immagine e somiglianza, perpetuando così il privilegio maschile. Nel 2018, tra gli amministratori delegati delle prime cento aziende del mercato azionario della borsa di Londra, c’erano più uomini di nome Steve che donne. Spesso gli uffici sono luoghi fisicamente tarati sulle esigenze degli uomini più che delle donne: secondo uno studio recente, la temperatura dell’aria è quasi sempre impostata “per adattarsi ai tassi metabolici di un uomo di quarant’anni e di settanta chili di peso”. Gli uomini stanno bene, le donne muoiono di freddo.
L’ufficio conserva ulteriori meccanismi a difesa del patriarcato. Il principale è il trattamento riservato ai figli dei dipendenti: o meglio, il non trattamento. Per gran parte della storia, il mondo del lavoro ha ignorato completamente i figli (la corsa agli sportelli scatenata dall’arrivo dei gemelli Banks nell’ufficio del padre in Mary Poppins _fa capire cosa succede quando la prole si presenta sul posto di lavoro). A occuparsene dovevano essere gli angeli del focolare, come i vittoriani chiamavano affettuosamente le donne sposate. Nel novecento, quando finalmente le donne entrarono nel mondo del lavoro, gli angeli persero le ali. Gli uffici risposero a quella epocale trasformazione sociale senza alcuna concessione. Da allora le donne devono barcamenarsi tra il ruolo dell’angelo e quello della manager, pagandone il prezzo in termini di stress. Per non parlare dell’onta di tutte quelle foto da catalogo che mostrano donne in abiti da ufficio che tengono in braccio i figli. Una piccola branca dell’editoria si è specializzata in libri dai titoli curiosi tipo _Ma come fa a far tutto?
La reiterata indifferenza dell’ufficio nei confronti dei figli ha portato al fenomeno sociale che Emily Oster, docente di economia alla Brown University e autrice di Cribsheet, una guida su base statistica per crescere i figli, chiama “genitorialità segreta”. I genitori si sforzano in tutti i modi di non far sapere che hanno figli, mettendo in atto una serie di tecniche che vanno dal non esporre le foto di famiglia in ufficio al fingersi malati per poter badare ai loro bambini veramente malati. Il timore, dice Oster, è che qualcuno “possa pensare che stanno dando la priorità al loro ruolo di genitori”. Quando sei una madre che lavora “fai sempre più o meno le cose di nascosto”, dice.
Nonostante la fatica degli spostamenti, i colleghi, lo stare seduti e le riunioni inutili, l’ufficio ci dà anche qualcos’altro: gioia. Lucy Kellaway, che da anni tiene una rubrica sul Financial Times dedicata alle assurdità della vita in ufficio, parla della “grande artificialità” di cui diventiamo partecipi nel momento in cui mettiamo piede in ufficio. “Facciamo finta di avere sempre i vestiti in ordine e di essere professionali e impersonali in tutto e per tutto, quando probabilmente nelle nostre teste – e sicuramente nelle nostre case – regnano il disordine e le scorregge”.
Quanto può essere meraviglioso questo artificio. Ora che lavoriamo quasi tutti da casa, tra i figli, le briciole di toast a terra e il bucato, ci stiamo rendendo conto che anche la finzione di una vita ordinata in ufficio è una liberazione. Dà a ogni giornata la sua struttura, i suoi ritmi di partenza e d’arrivo. Indossare una camicia di seta perfettamente stirata o un vestito fresco di lavanderia e uscire di casa sarà pure una finzione, ma è anche, dice Kellaway, “una delle cose belle della vita lavorativa. Ci permette di essere persone diverse. Siamo tutti talmente stufi di ciò che siamo che l’opportunità di essere qualcun altro, qualcuno di più affascinante, è una tentazione irresistibile”. Quando questa via d’uscita ci viene negata, il suo fascino inevitabilmente cresce.
E così, nonostante le minacce che sta affrontando l’ufficio, ci sono buoni motivi per essere ottimisti sul suo futuro. In questi giorni “l’iper-concreto è sempre più apprezzato”, osserva Heatherwick. Le vendite di dischi sono ai massimi da anni, le copertine dei libri raramente sono state così belle. Anche se in molti non l’avrebbero mai ammesso fino a questa primavera, tutte quelle scrivanie, quelle persone, quel trambusto e quelle perdite di tempo hanno i loro vantaggi.
Le persone hanno bisogno dell’ufficio. In questo momento i rapporti online ci mantengono vivi come esseri sociali, ma le videoconferenze di lavoro spesso sono imbarazzanti e sgradevoli. Dopo la gioia iniziale di sbirciare nelle case degli altri su Zoom, ci ritroviamo davanti le facce dei colleghi, ancora più vicine e invadenti di prima, e osserviamo inorriditi i loro capelli radi e i loro doppi menti, consapevoli che anche noi facciamo lo stesso effetto a loro. Non siamo più persone, ma figure grottesche. Nessuna chat di Skype può replicare ciò che Heatherwick chiama la “chimica dell’imprevisto”. Gli uffici magari non riempiranno le pagine delle antologie di poesia ma, dice Kellaway, “possono essere commoventi come qualsiasi altro luogo sulla Terra. Perché ciò che ci commuove non è stare seduti al computer, sono le relazioni che abbiamo con le altre persone”.
Anche Charles Lamb ne era consapevole, nonostante i suoi mugugni. Quando Wordsworth sembra compiacersi un po’ troppo delle gioie sublimi del mondo naturale, Lamb risponde: “Non m’importa se non vedrò mai una montagna in vita mia”. In compenso gli importava della città, e sicuramente amava l’ufficio. Le sue lamentele, scrive, erano semplici “bisticci tra innamorati”. Soprattutto, amava la sua scrivania. Perché è “il legno morto della scrivania che mi fa vivere”. ◆ fas
**catherine Nixey **
è la critica radiofonica del Times di Londra. Questo articolo è uscito sull’Economist 1843 con il titolo Death of the office.
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Questo articolo è uscito sul numero 1365 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati