Barney Gardner è uno degli ultimi inquilini di case popolari rimasti nel quartiere di Millers Point, a Sydney. Ex imbianchino e scaricatore di porto di 72 anni, Gardner ha abitato lì per tutta la vita. Ha sperimentato in prima persona il disprezzo dei governi statali e federali per il benessere degli australiani “invisibili” che vivono in alloggi come il suo. “Noi possiamo anche mescolarci con i ricchi”, dice, “non m’interessa l’erba più verde. Ma loro sono disposti a vivere con noi? È disgustoso il modo in cui sono trattati gli inquilini delle case popolari”.

Gardner ha visto sparire la sua comunità sempre più rapidamente. Sono stati tutti trasferiti da una struttura fatiscente all’altra, senza alcun diritto a interventi di manutenzione essenziali, per non parlare di condizioni di vita decorose, mentre le loro case, dichiarate patrimonio storico, venivano vendute a privati. E Gardner è uno dei fortunati, visto che ha ereditato il cottage dei suoi genitori grazie alle norme previste dalla Maritime services board, l’autorità marittima dello stato del New South Wales, che un tempo garantiva la “successione”. Gardner ha aiutato alcuni vicini a mantenere i contratti di locazione ereditati dalle famiglie, ma alla fine la “successione” è stata eliminata.

Un edificio di case popolari abitato da cento persone e sgomberato per essere venduto, Sydney, 2014 (Nic Porter)

Gli sforzi fatti nel dopoguerra per costruire nuovi alloggi popolari finanziati dal Commonwealth e gestiti dallo stato sono in gran parte finiti con gli anni ottanta. Oggi, per costruire nuove abitazioni, la New South Wales land and housing corporation, che gestisce le case popolari nello stato, deve autofinanziarsi, il che significa vendere delle proprietà per costruirne di nuove, secondo un sistema altrimenti noto come “riciclaggio delle risorse”, che il dottor Michael Zanardo, architetto e urbanista specializzato in alloggi a prezzi accessibili e in edilizia sociale (per chi non può permettersi l’acquisto di una casa ma ha un reddito troppo alto per aver diritto alle case popolari), descrive come una barzelletta. “Quando sorgono nuove case di edilizia sociale in una zona, la crescita del numero di alloggi è marginale”, dice. “Quello che non vediamo è quante altre proprietà sono vendute senza essere sostituite. È ridicolo che nel 2022 non si possano costruire più case popolari a Sydney o altrove. Bisognerebbe costruirle sulla base del volume totale degli alloggi a disposizione, ma per ragioni politiche o ideologiche, non lo si fa”.

Il pretesto del mix sociale

Il governo dello stato di Victoria ha impegnato 5,3 miliardi di dollari australiani (circa 3,6 miliardi di euro) per l’edilizia sociale nei prossimi cinque anni. Il programma, chiamato Big housing build, è la spesa più ingente dello stato per l’edilizia abitativa dal 1960. Ma quasi tutti quei fondi non saranno usati per l’edilizia pubblica, ma per la costruzione di nuovi community housing, alloggi dati in affitto a persone con un reddito basso la cui gestione (e verosimilmente anche la proprietà) finirà nelle mani di organizzazioni non profit. Questo si aggiunge a un programma di riqualificazione delle case popolari, che contribuisce alla gentrificazione del centro della città con il pretesto di favorire il “mix sociale”.

L’iniziativa coinvolge costruttori privati che demoliscono e ricostruiscono case popolari fatiscenti e realizzano nuove abitazioni private su terreni pubblici ceduti o venduti a un basso tasso d’interesse, e la cui vendita finanzia la ristrutturazione. La costruzione di alloggi privati su terreni pubblici è giustificata dall’idea del “mix sociale”.

Kate Shaw, una geografa urbana dell’Università di Melbourne, spiega che la logica del mix sociale è una “foglia di fico” per mascherare la privatizzazione del suolo pubblico, mentre negli ultimi trent’anni l’edilizia popolare è stata deliberatamente trascurata. Secondo Shaw, il mix sociale ha poco a che fare con questo: “Il programma è principalmente un modo per finanziare la riqualificazione delle case popolari con una spesa pubblica minima”. In alcune zone, i nuovi alloggi popolari sono dati in gestione a imprese che offrono community housing, il che significa che non sono più di proprietà pubblica e che l’affitto può essere aumentato in qualsiasi momento. Nello stato di Victoria gli affitti delle case popolari corrispondono in genere al 25 per cento del reddito dell’inquilino, mentre quelli dei community housing possono arrivare al 30 per cento di quel reddito, se non di più. Nel New South ­Wales gli affitti delle case popolari sono pari al 25-30 per cento del reddito del titolare mentre quelli dei community housing si basano sul reddito combinato della coppia, il 15 per cento del reddito di qualsiasi altro inquilino di età superiore ai 18 anni, più il 15 per cento dello sgravio fiscale ottenuto.

L’Australian housing and urban research institute stima che da un milione e mezzo a due milioni di australiani a basso reddito rischiano di ritrovarsi per strada: vivono in alloggi in affitto e sono tra l’8,5 e l’11,7 per cento della popolazione di età superiore ai 15 anni. Secondo l’Australian bureau of statistics, circa il 60 per cento delle famiglie a basso reddito – più o meno due milioni di persone – spende più del 30 per cento delle entrate per pagare l’affitto a privati. È significativo il fatto che il numero di persone che ricevono il contributo del Commonwealth per l’affitto è aumentato del 126 per cento rispetto al 2016. E, nonostante il contributo, quasi un terzo di queste famiglie rischia di non poter pagare l’affitto.

Libby Porter, docente di pianificazione urbana al Centro per la ricerca urbana del Royal Melbourne institute of technology (Rmit), afferma che i governi hanno strategicamente smesso d’investire nell’edilizia popolare per giustificare la necessità di sfrattare gli inquilini e privatizzare le abitazioni per motivi di sicurezza. Barney Gardner chiama questo processo “sfratto per abbandono”. L’ha combattuto per la maggior parte della sua vita. Non solo per se e la sua compagna, Glenda, ma per la comunità dei residenti di Millers Point prima che il New South Wales land and housing costringesse quasi tutti ad andarsene.

Per più di ventotto anni Gardner ha visto la sua casa cadere in rovina. La muffa copriva la parete della camera da letto, le tavole del pavimento erano sollevate. Al di là di quel che si poteva fare con un aspirapolvere, la moquette non era stata mai pulita né sostituita. Il cottage non era mai stato riverniciato. I vicini scherzavano sul fatto che quando pioveva sul loro muro interno spuntava “una bella fontana”. Gardner dice che questi problemi non sono mai stati risolti. Da allora si è trasferito in un appartamento più piccolo, ma anche quello ha bisogno di lavori. La luce della cappa aspirante fa scattare l’interruttore generale ogni volta che la si accende. Il lavandino del bagno non trattiene l’acqua, non importa quanti tappi abbia provato a metterci. La luce esterna è rotta. Ma Gardner ha rinunciato a cercare di far riparare tutte queste cose. “Non me la sento di affrontare le seccature che comporta”, dice. Quindi, se lo tiene com’è. Ha sistemato lui la luce esterna. E non usa più quella della cappa. Vivere all’interno del sistema pubblico significa questo. “Hanno infranto le loro stesse regole per decenni”, dice. “Fino a quando non hanno deciso di sfrattarci”. Improvvisamente gli operai si sono presentati per riparare i tetti che perdevano e che fino a quel momento erano stati ignorati, le scale sono state ridipinte: tutti lavori superficiali per far salire il prezzo. Ma i problemi strutturali e di sicurezza più gravi hanno continuato a essere ignorati.

Sia Shaw sia Porter hanno condotto ricerche che dimostrano che in Australia le ristrutturazioni immobiliari nei centri delle città sono dovute più al bisogno di capitalizzare sulla vendita di terreni pubblici che per assistere gli inquilini delle case popolari. Porter spiega che il discorso ricorrente sul progetto di mix sociale ignora di proposito la “premessa profondamente paternalistica” secondo cui attraverso la vicinanza si può “rimodellare la propria vita per uscire dalla povertà”. “Sono le basi stesse del programma di rinnovamento urbano che vanno superate”.

Ex case per operai in vendita, Sydney, 2016 (Nic Porter)

Un articolo che Shaw ha scritto insieme all’ex studente del suo master Abdullahi Jama e intitolato “Perché abbiamo bisogno di un mix sociale?” dimostra che i presunti benefici del modello di riqualificazione raramente si materializzano per gli inquilini delle case popolari, e anzi che quel modello li può danneggiare. Spesso aumenta ulteriormente gli svantaggi provocando “l’invasione della classe media nelle aree circostanti”. Questi progetti edilizi riguardano abitazioni popolari ad alta densità, il che significa che gli inquilini finiscono per avere meno spazio a disposizione di prima. “Dimostra solo quant’è stupida questa logica”, dice Shaw.

Secondo Gardner, quello che molti potrebbero considerare un progresso è stato ottenuto con un costo sociale alto. “A volte mi pento di essere rimasto”, dice. “C’è ancora qualcuno che conosco, ma non c’è più la comunità di una volta”. Prima andava abitualmente al pub del quartiere a bere una birra con gli amici, ora non conosce nessuno. “Non ci vado più tanto spesso”, dice. “Tutti sapevano come ti chiamavi. Adesso cammino per strada e nessuno sa il mio nome. È terribile”.

Porter, Shaw e Zanardo concordano nel dire che la percentuale di alloggi dell’edilizia sociale è molto inferiore a quella che dovrebbe essere, e che per ridurre seriamente le difficoltà abitative bisognerebbe tornare al modello delle case popolari. Le socialdemocrazie sane come quelle nordeuropee e scandinave hanno quasi il 50 per cento di alloggi sociali o sovvenzionati, che garantiscono stabilità, sicurezza e affitti fissati in proporzione al reddito degli inquilini, non a prezzo di mercato. Gli esperti chiedono una strategia abitativa nazionale e un aumento dell’edilizia pubblica come infrastruttura sociale nell’ordine delle 730mila nuove abitazioni nell’arco di vent’anni in tutta l’Australia, in linea con le raccomandazioni del rapporto dell’Housing and urban research institute.

La casa non è una merce

“Il community housing fa la sua parte, ma non può fare tutto”, afferma Jago Dodson, un docente di politica urbana dell’Rmit. “In parte perché il governo ha la possibilità di ottenere prestiti a un tasso d’interesse basso mentre quasi nessuna delle altre entità può offrire una garanzia simile. Questo significherà spostare tutti i sussidi che diamo a chi vuole comprare una casa, e le tasse a cui rinunciamo, per trasferirli sulla costruzione di alloggi sociali”. Secondo Zanardo le case popolari dovrebbero essere costruite con regolarità, in quanto infrastrutture e ripari per le persone. “L’alloggio non dev’essere una merce”, dice.

È di fondamentale importanza progettare edifici confortevoli, non solo gradevoli nell’aspetto, dice. “Questo significa buona luce e ventilazione, privacy e silenzio. Non devono essere umidi, ma ambienti sani in cui vivere. Questo è quel che conta di più. Se non costruisci nuovi alloggi, non hai il controllo su questi fattori. Ma quando lo fai, puoi scegliere la posizione, la struttura e il livello di comfort che offri ai residenti”.

Esistono diversi meccanismi attraverso cui è possibile finanziare la realizzazione di nuovi alloggi popolari. Una tassa sullo sviluppo potrebbe garantire che il patrimonio di alloggi sociali non scenda sotto un certo livello rispetto all’edilizia privata e potrebbe permettere di “recuperare” parte dell’inflazione del valore patrimoniale delle abitazioni private. Anche una zonizzazione (la suddivisione del territorio di un comune in aree omogenee in base a certe caratteristiche) più inclusiva potrebbe sfruttare i benefici della riqualificazione richiedendo che una parte dell’aumento di densità sia dedicato all’edilizia sociale.

Da sapere
Crowdfunding per l’affitto

◆ I costi inaccessibili degli affitti stanno spingendo sempre più australiani verso il crowd­funding per pagarsi un alloggio. Sulle principali piattaforme di finanziamento collettivo, scrive il Guardian, le richieste di contributi per pagare l’affitto, coprire i costi di un alloggio temporaneo e comprare un camper per evitare di dormire per strada sono quadruplicate. Il nuovo primo ministro laburista Anthony Albanese, cresciuto in una casa popolare, durante la campagna elettorale ha promesso d’istituire un fondo da 10 miliardi di dollari australiani per gli immobili, usando i rendimenti per costruire 30mila nuove case popolari o a prezzo calmierato.


Recentemente, dopo un rifiuto da parte dei costruttori, il governo dello stato di Victoria ha rinunciato all’idea d’introdurre una tassa dell’1,75 per cento sullo sviluppo di aree residenziali, da destinare a un fondo annuale di 800 milioni di dollari per l’edilizia sociale. Una possibile alternativa sarebbe un meccanismo di tassazione progressiva sui terreni, in base al quale le aree con un tasso di aumento del proprio valore più elevato pagano un’aliquota d’imposta più alta rispetto alle aree meno ricche.

Dodson afferma che la costruzione diretta di case popolari è più economica di altri sistemi. Se dovessimo trattare l’edilizia popolare come un’infrastruttura, dice, ci vorrebbero altre 730mila abitazioni per soddisfare la domanda, considerate le liste d’attesa, il che richiederebbe un investimento di circa cinque miliardi di dollari australiani all’anno per vent’anni. “Si tratta di circa 100 miliardi d’investimenti, che in realtà sarebbero fattibili perché ai proprietari restituiamo circa 13 miliardi all’anno d’investimenti in passivo”, spiega Dodson. “Se usassimo gli investimenti in passivo per costruire alloggi popolari, potremmo facilmente raggiungere questo obiettivo in dieci anni”.

Secondo il rapporto Residential property prices indexes dell’Ufficio di statistica australiano, il valore totale dei 10,8 milioni di case del paese è cresciuto di 2,2 migliaia di miliardi di dollari australiani, con un record di 9,9 migliaia di miliardi nel 2021. Grazie ai bassi tassi d’interesse e agli sconti sulle plusvalenze, molti proprietari di case hanno rifinanziato o “ristrutturato” le loro abitazioni, contraendo mutui più ingenti a tassi molto bassi, con un enorme trasferimento di ricchezza alle famiglie che già possiedono una casa.

Un limite al costo

In Australia il 30 per cento delle famiglie che vivono in affitto non ha tratto vantaggio dall’inflazione patrimoniale di cui hanno goduto i proprietari di case. “Dovremmo seriamente interrogarci su come le nostre impostazioni di politica monetaria aggravano le disuguaglianze abitative”, dice Dodson. “Sentir dire ‘non possiamo permettere ai poveri di vivere nelle zone ricche’ è già offensivo di per sé, ma ci sono anche altre cose offensive nel nostro sistema abitativo – come i grandi spostamenti di ricchezza verso i più ricchi – su cui tutti dovremmo interrogarci”.

Porter invoca un tetto agli affitti del mercato privato “per evitare che i prezzi continuino ad aumentare all’infinito”, e più diritti per gli affittuari. Ma anche solo per cominciare ad affrontare la crisi dell’edilizia popolare è necessaria la leadership decisa che, tutti concordano, negli ultimi trent’anni è mancata.

Secondo Barney Gardner un programma universale di edilizia residenziale pubblica, aperto a persone di ogni reddito, sarebbe la migliore soluzione, con gli affitti fissati al 25 per cento del reddito familiare e una certa progressività rispetto alle potenzialità di guadagno: “In questo modo tutti potrebbero essere inclusi”. Secondo Gardner i governi dei singoli stati dovrebbero istituire un ministero indipendente per gli alloggi, senza tutti gli obblighi dei portafogli misti. “Prima siamo andati a protestare davanti al ministero per la famiglia e le comunità, poi davanti a quello della finanza, ora davanti a quello per le comunità e la giustizia”, dice. Gardner aggiunge che non si possono risolvere i problemi dell’edilizia residenziale pubblica cannibalizzando le risorse esistenti. Abbiamo bisogno di nuovi alloggi e di un governo che si preoccupi di risolvere la crisi. “Ho sempre detto: ‘Se volete sapere come vivono gli inquilini delle case popolari, la mia porta è aperta’”, racconta Gardner. “Vi preparerò un tè e ve lo mostrerò. Ma nessuno ha mai accettato la mia offerta”. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1464 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati