Se solo avessi messo in valigia i guanti imbottiti per questo viaggio ai Caraibi.

Sono le 5.55 del mattino e i pini intorno a noi sono coperti di brina. Un vento gelido mi taglia le mani e penetra attraverso i calzini con cui, in mancanza d’altro, ho provato a ripararle. Con le dita irrigidite dal freddo, tiro su il più possibile la zip del mio giaccone da sci. Alla luce delle stelle, si staglia davanti a noi un profilo triangolare: è la cima del Pico Duarte. Il tempo sta per scadere: entro l’alba, alle 6.53, dobbiamo arrivare in vetta.

Il Pico Duarte, con i suoi 3.098 metri, è la montagna più alta della Repubblica Dominicana e di tutti i Caraibi. A dividerla dal mare non ci sono neanche settanta chilometri in linea d’aria, ma dove siamo ora, a 2.900 metri sopra il livello del mare, le spiagge di sabbia e i turisti scottati dal sole di Punta Cana e Puerto Plata sembrano lontani anni luce.

“Oggi in vetta ci saranno al massimo cinque persone”, dice la nostra guida Victor Serrata, mentre si fa portare su per il sentiero dal suo mulo. Noi tre turisti e le due guide alpine abbiamo passato la notte nell’unico rifugio che c’è lungo i ventitré chilometri tra il piccolo villaggio di La Cienaga e la cima della montagna. Il rifugio è una costruzione di lamiera senza elettricità né acqua corrente. Ovviamente non ci sono neanche il riscaldamento o i buffet all you can eat degli alberghi.

Per cena ci hanno dato riso, fagioli e birra in lattina, seduti intorno al fuoco, mentre Serrata, un cinquantaduenne con i baffi e la pancetta, che non vede il mare da anni, ci racconta del suo ultimo raccolto: patate, mais, igname e piante rampicanti di cui si mangiano i tuberi. Coltivare la terra è la sua occupazione principale. La scalata del Pico Duarte è quanto di più lontano ci sia dal turismo di massa. 

Ospiti in case private

La Repubblica Dominicana ha un problema d’immagine: sole, spiagge, alcol e turismo sessuale. Ci sono posti che confermano i cliché, per esempio Punta Cana o Puerto Plata, dove i turisti, trasportati in gruppo sui pullman direttamente dall’aeroporto, si rifugiano in resort che hanno muri altissimi, spesso uscendo solo alla fine delle vacanze all’insegna del divertimento organizzato nei minimi dettagli.

Ma la Repubblica Dominicana è molto meglio di tutto questo: è molto più varia, colorata e selvaggia. Per scoprirne le bellezze, non bisogna affrontare per forza un trekking di quarantasei chilometri (andata e ritorno) per raggiungere la vetta del Pico Duarte: basta affittare una macchina per una decina di giorni e organizzarsi da soli una vacanza sull’isola di Hispaniola, territorio condiviso con lo stato di Haiti.

Las Galeras è una località da sogno: intorno a un villaggio di pescatori sulla penisola di Samaná, nel nordest dell’isola, le spiagge bianche con le palme e l’acqua azzurra si estendono per centinaia di metri. All’inizio della primavera alcune di queste spiagge erano quasi del tutto deserte, nonostante ufficialmente i numeri dei contagi da covid-19 si fossero drasticamente ridotti. La verità è che la spiaggia è poco frequentata perché a Las Galeras c’è un solo piccolo resort. In questa località la maggior parte dei turisti pernotta in case private.  Alcune delle persone che affittano le camere sostengono che dalla spiaggia a volte si vedono le megattere, che da metà gennaio a fine marzo si affollano davanti alla costa per allattare i piccoli. Chi vuole avvicinarsi, può farsi portare al largo dai pescatori del posto. Ma quando c’è mare grosso l’impresa è rischiosa. Per un’escursione con un’imbarcazione più grande e più stabile bisogna partire dalla vicina Samaná. Il prezzo è più o meno lo stesso, circa cinquanta dollari statunitensi a persona, ma a bordo spesso c’è gente.

Da Punta Cana a dove siamo ora ci vogliono quattro ore e mezza. Lungo la strada sono vari i posti da scoprire: uno su tutti è Salto de Socoa, una cascata che si tuffa in una piscina naturale, in mezzo alla foresta vergine. Nell’acqua tiepida color smeraldo anche i nuotatori meno esperti possono fare il bagno in tranquillità. È raro che i turisti arrivino fin qui in massa. Il parcheggio costa qualche peso e c’è un ragazzo che vigila tutto il giorno affinché ai visitatori non capiti nulla.

Nella Repubblica Dominicana chi vuole fare il bagno in una cascata ha un’ampia scelta: la più bella di tutte forse è Salto de Limón, una cascata color giallo limone sulla penisola di Samaná, raggiungibile a piedi o a dorso di mulo attraversando la foresta pluviale, poi c’è quella di Jimenoa, nei pressi di Jarabacoa, nella parte centrale del paese, famosa per gli arcobaleni che a volte si formano sull’acqua. Poi ci sono le ventisette cascate di Damajagua, in cui nuotare non è l’unica opzione: da alcune ci si può anche tuffare o fare lo scivolo. Ma si entra solo pagando un biglietto prima dell’ingresso al parco, accompagnati da una guida e in gruppo.

Fino a qualche mese fa i clienti russi erano la maggioranza, ma da quando Vladimir Putin ha attaccato l’Ucraina non riescono quasi più a venire nella Repubblica Dominicana e a causa delle sanzioni occidentali spesso le loro carte di credito non funzionano più.

Perciò la maggior parte di quelli che si godono Damajagua e molte altre spiagge sono turisti interni, dominicani e dominicane che fanno brevi vacanze. Spesso sono allegri e piuttosto rumorosi. C’è perfino chi si porta dalla foresta alle cascate le casse per ascoltare della musica. E quando festeggiano un compleanno, offrono una fetta di torta dalle decorazioni coloratissime anche ai gringos (appellativo dato in America Latina agli stranieri) seduti a fianco a loro in spiaggia.

La località più vivace di tutte è Santo Domingo, la capitale del paese, sul fiume Yaque del sur. Qui, dove il fiume principale dell’isola sfocia nel mar dei Caraibi formando un porto naturale, cinquecento anni fa i conquistatori spagnoli costruirono l’avamposto dal quale uno dei fratelli di Cristoforo Colombo governava l’isola.

Ai posteri gli spagnoli hanno lasciato un elegante quartiere coloniale con una cattedrale e un forte dalla cui torre si domina tutta la città vecchia. La sera, anche se ci sono trenta gradi, i ragazzi si danno appuntamento sul lungomare per cantare, andare sugli skateboard, bere e ballare.

Ma sul Pico Duarte è tutta un’altra storia: poco dopo le 6.30, quando percorriamo gli ultimi metri che ci separano dalla vetta, continua a tirare un gran vento e fa ancora decisamente freddo. In compenso l’aurora illumina il cielo, seguita ben presto dai primi raggi di sole su un mare di cime e nuvole arancioni, rosse e gialle. Scattiamo foto e ci godiamo il panorama dell’isola vista dall’alto.

Un’ora dopo, scendendo, dobbiamo fermarci più volte per toglierci i giacconi. A tremila metri sopra il livello del mare fa di colpo caldissimo: i Caraibi sono pur sempre i Caraibi. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1465 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati