Per le strade di Managua, la capitale del Nicaragua, Ricardo Mayorga fuma la decima sigaretta del giorno, mentre guida a ottanta chilometri all’ora. Passa con l’ennesimo rosso, suona il clacson. “Figlio di puttana!”, grida, quando una macchina gli taglia la strada.

Le gomme della sua auto stridono al contatto con l’asfalto. Frena. Invade l’altra corsia e preme di nuovo a fondo il pedale dell’acceleratore.

Parcheggia la sua Scion davanti alla scuola Miguel Bonilla Obando nel quartiere Primero de Mayo. L’orologio sul cruscotto segna l’una, l’ora in cui Ana Ruíz, una vicina dell’ex campione mondiale di pugilato, deve entrare a scuola. Ana frequenta il terzo anno delle superiori. Tutti i giorni Mayorga accompagna a scuola questa ragazzina mentre si fuma una sigaretta, alza il volume della radio e procede a zigzag sui viali trafficati.

“Ho perso il conto di tutti gli incidenti che ho fatto”, mi ha detto in un pomeriggio del maggio 2016. “Mi hanno dato sempre ragione. Come posso perdere, se ho dalla mia parte il presidente e due dei migliori avvocati del Nicaragua?”.

Vent’anni fa, Mayorga guidava Mercedez Benz e Bmw. Prima di combattere contro Óscar de la Hoya, strappò le chiavi della Rolls Royce dalle mani del suo procuratore, Don King, e lo portò a una stazione ferroviaria, dove lo abbandonò. Poi andò all’aeroporto e tornò in Nicaragua. Gli mancava la sua famiglia.

Il giorno dopo King era nel quartiere Laureles Sur, dove Mayorga viveva. Voleva convincerlo a riprendere gli allenamenti. Il pugile era andato a prenderlo all’aeroporto insieme al sindaco della capitale, Dionisio Marenco. Lo aveva portato a casa sua e gli aveva offerto da mangiare. King restò per un giorno intero a casa di Mayorga. Il noto procuratore – capelli afro, risata squillante, occhiali scuri – gli disse che gli avrebbe dato seicentomila dollari in contanti se fosse tornato subito ad allenarsi a Cleveland. “Quel giorno stesso ripartii con il vecchio”, mi ha raccontato Mayorga.

Laureles Sur è uno dei quartieri più difficili di Managua. Le strade sono sterrate e polverose. Ci sono edifici a due piani, negozi di prodotti al dettaglio e mototaxi che suonano il clacson per attirare i clienti. C’è un garage, che in fondo ospita la stanza di Ricardo Mayorga.

Quella mattina del 2016 il pugile era seduto sul divano e stava guardando un programma messicano. Aveva 42 anni (quest’anno ne compie 49) e l’aria stanca. Tra le mani aveva del gallo pinto, un piatto tradizionale a base di riso e fagioli, formaggio, uova e tortilla.“Mi sono tolto tutti gli sfizi del mondo e non mi posso lamentare. Se avessi fatto diversamente non me lo sarei perdonato”, mi ha detto. Ricardo Mayorga è diventato famoso nel 2003, quando sconfisse lo statunitense Vernon Forrest con un knock out inatteso. Forrest era il miglior pugile del momento. La rivincita fu organizzata subito.

La scena che descrive meglio il personaggio è ormai memorabile: durante il quarto round, Mayorga chiese a Forrest di colpirlo in faccia. Il pugile afroamericano esitò, ma poi cominciò a sferrare pugni contro l’avversario. Mayorga sorrise e gli chiese di colpire più forte. All’ultimo round i giudici assegnarono la vittoria al nicaraguense. Il titolo strappato a Forrest lo consacrò. Prima aveva sconfitto Andrews “Seis Cabezas” Lewis, diventando il decimo nicaraguense a conquistare un titolo mondiale e il primo nella categoria dei pesi welter.

Tutti contro di lui

Anche se aveva battuto il migliore del mondo, Mayorga non poteva essere definito un ottimo pugile: sul ring aveva uno stile troppo disordinato. Gli mancava la difesa sfuggente di Floyd Mayweather o la tecnica di Muhammad Ali. Ma i migliori pugili dell’epoca, come Félix “Tito” Trinidad e Óscar de la Hoya, volevano combattere contro di lui.

Prima dell’incontro con Trinidad, Mayorga conobbe la sua attuale moglie, Herenia Silvia Pérez. Era la fine del 2004. Perse il combattimento al sesto round, ma guadagnò comunque quattro milioni di dollari. Per quella gara King gli chiese di allenarsi in una palestra a Las Vegas. Il nicaraguense accettò, ma i milioni gli avevano già dato alla testa.

“Di notte affittavo delle limousine e facevo orge con le escort”, mi ha raccontato. “Ho noleggiato due volte un aereo privato per volare dalla costa occidentale a Miami e soddisfare la mia fantasia di fare sesso con due donne in volo”.

Da adolescente si azzuffava con tutti. Crescendo, ha trovato nella boxe l’unica speranza per uscire dalla povertà

“Povero pazzo, che brutta fine”, “quel poveretto è vittima della moglie”, “a nessuno interessa più niente di lui”, dicevano i vicini.

La casa in cui vive Mayorga ha il pavimento di terra, come quelle attorno. La mattina in cui abbiamo parlato, ha acceso l’unico condizionatore che aveva in casa e l’ha messo a diciassette gradi. Diceva di non sopportare il caldo di Managua.

La sua famiglia contribuì a fondare il quartiere Laureles Sur. Era arrivata a Managua dopo aver perso una casa a Granada, nella zona est della città, per colpa dei debiti. Suo padre era tassista e sua madre preparava le torte, e lui se le metteva sulla testa e andava a venderle per strada.

I Mayorga erano dei gran lavoratori: pulivano terreni, tagliavano prati, dipingevano case e vendevano cibo. Ma la loro specialità era delimitare i confini delle proprietà con il filo spinato. Per un po’ guadagnarono bene, ma quando tutti gli spazi erano ormai circondati dal filo spinato la loro attività si esaurì. Per i vicini era strano vederli disoccupati. L’unico a guadagnare qualcosa era il pugile.

“Mayorga non ha più niente. Quel poveretto ha perso tutto. La casa in cui vive gliel’ha costruita il governo qualche anno fa”, mi ha confidato un vicino. Altri dicono che la casa l’aveva fatta costruire lui per sua madre. Dopo una carriera piena di eccessi, è rimasto senza un soldo. È diventato, come altre figure sportive, un adulatore del presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, che ogni tanto lo portava nelle piazze e alle manifestazioni. Persone vicine al pugile dicono che il partito gli passava uno stipendio mensile.

Durante l’intervista, Mayorga mi ha detto che Daniel Ortega a volte lo invitava a casa. Aveva mangiato con lui in qualche occasione e il presidente gli aveva chiesto di raccontargli le storie dei combattimenti. “Al comandante piace ascoltare le mie pazzie. Mi chiedono sempre di fare i giochi di prestigio con le carte. Amano i trucchi”.

Mayorga mi ha spiegato che Ortega si era offerto di aiutarlo a comprare una società sportiva da dirigere. Era lo stesso accordo che aveva accettato il suo amico ed ex campione mondiale Rosendo Álvarez, che adesso ha una palestra.

“Ho sempre detto al Loco di non fidarsi di Don King”, mi ha detto Rosendo Álvarez, noto come “El Búfalo”, un ex pugile nicaraguense degli anni novanta. Faceva parte della squadra di Don King ai tempi d’oro. “Per la mia categoria (pesi paglia, massimo 48 chili) gli ingaggi erano bassi, appena centomila dollari. Ma per i pesi welter, dove combattevano Mayorga e i suoi rivali, pagavano benissimo. Lui riceveva ingaggi da quattro milioni di dollari”, ha spiegato Rosendo. “Ma difficilmente King glieli avrà dati. Quel vecchio era cattivo, ingannava tutti”.

Mayorga avrà guadagnato dieci milioni di dollari. Ma chi lo conosce conferma che King gli dava anticipi di migliaia di dollari e poi si teneva il resto.

Mayorga si guadagnò la fama di spaccone e ciarlatano. Prima di ogni combattimento aveva l’abitudine di offendere e prendere in giro gli avversari. Lui dice che era per surriscaldare l’ambiente in vista del combattimenti. Ma così si fece centinaia di nemici.

“Ti prenderò a pugni fin dentro al palato e tuo padre dovrà venire ad aiutarti sul ring”, disse a “Tito” Trinidad, nel combattimento che poi perse all’ottavo round. “Quell’ometto non ha le palle che ho io”, urlò a Shane Mosley, pugile che l’avrebbe battuto due volte per knock out. Fuori dal ring non è diverso. Quando gli ho chiesto come si guadagnava da vivere, mi ha risposto: “Ho tre milioni di dollari in banca e vivo degli interessi”. Con uno sguardo di sfida, ha aggiunto: “Perché lavorare se quei soldi mi fruttano ventimila dollari al mese?”.

Biografia

1973 Nasce a Masaya, in Nicaragua.

2003 Sconfigge il pugile statunitense Vernon Forrest e diventa campione mondiale dei pesi welter.

2005 Diventa campione mondiale dei pesi superwelter.

2013 Fa il suo primo combattimento di Arti marziali miste (Mma): vince ma poi viene squalificato per un aver messo a segno un colpo irregolare.


La batosta

Uno dei suoi combattimenti più famosi fu quello contro il portoricano Félix “Tito” Trinidad, nel 2004. Nel primo round il nicaraguense mantenne la promessa fatta mesi prima: abbassò la guardia per dimostrare che i pugni non gli facevano male. Ma i tre ganci sinistri sferrati dall’avversario segnarono le sorti del combattimento. Le gambe del nicaraguense non ressero più. Alcuni secondi prima, Mayorga era riuscito a far toccare a Trinidad il tappeto con un guanto. Knock out tecnico. “El Loco” sembrava sicuro di sé. Prese una batosta.

Quando gli ho chiesto perché si era comportato così, mi ha detto che nei mesi precedenti aveva a malapena messo piede in palestra. Sapeva di non avere alcuna possibilità di vincere, ma se avesse abbassato la guardia tutti avrebbero ricordato che era stato “coraggioso” a incassare i colpi di uno dei migliori pugili latinoamericani di sempre. “Non volevo che fermassero il combattimento perché ero senza fiato”.

Arrivò all’ottavo round, dopo essere finito al tappeto tre volte di seguito.

Mayorga mi ha confessato di essersi preparato a dovere solo per i primi due combattimenti della sua carriera. Il resto del tempo l’aveva passato a mangiare troppo, a bere e a fumare.

Ha fumato per tutta la vita quattro pacchetti al giorno, ma quando beve di solito ne finisce otto. Ha acceso la sigaretta. In quel momento non toccava una goccia d’alcol da sei mesi. I vicini l’hanno confermato, dicendo che negli ultimi tempi l’hanno visto calmo.

I vizi di Mayorga erano il biliardo, le carte, i soldi, le donne e l’alcol. Ma chi lo conosce dice che ha toccato il fondo con il crack. Una sera, nell’agosto 2020, Mayorga stava bevendo con due amici, Yesner “Cuajadita” Talavera, un ex pugile, e l’ex deputato Everth Cárcamo. Quando era ormai ubriaco, “Cuajadita” l’ha portato con l’inganno al centro di riabilitazione Las Águilas. Non è stato facile.

Il giornalista Eduardo Cruz ha scritto nel suo reportage per La Prensa che ci sono voluti quattro uomini per farlo entrare. Era la fine del suo periodo più buio. I video in cui girava ubriaco per strada, e chiedeva l’elemosina erano diventati popolari sui social network. In quei mesi era stato picchiato e gli avevano rotto le costole. Rosendo Álvarez, due volte campione mondiale e suo amico, l’ha aiutato a ripulirsi. Il primo passo era restare sei mesi a Las Águilas. Ci è rimasto due mesi.

Mayorga non ha fatto solo bravate, ha anche commesso dei reati. Nel 2004, prima del combattimento contro Trinidad, una ragazza lo accusò di averla stuprata e mostrò la macchina che le aveva regalato per farla tacere. Lui non mise piede in carcere.

Un anno dopo il proprietario di una concessionaria lo denunciò chiedendogli duecentomila dollari, il prezzo delle venti macchine che Mayorga aveva comprato per regalarle ai suoi amici. Alla fine trovarono un accordo e la cosa si chiuse lì.

Un altro dei suoi gesti più ripugnanti risale alla promozione del suo ultimo grande combattimento, quello contro Shane Mosley. Mayorga toccò il sedere alla fidanzata del suo rivale. “Ho sempre fatto tutte queste cose per riscaldare l’atmosfera”, ha detto in sua difesa.

Per Mayorga la famiglia è fondamentale. Dice che la cosa migliore che gli è successa è stata portare i genitori a vedere i suoi combattimenti per il titolo mondiale a Las Vegas o a New York. La madre, Miriam Pérez – una signora robusta, alta e con i capelli tinti di rosso, giallo e viola – è la cosa più importante della sua vita.

All’apice della carriera, Mayorga mandava a casa sua due autobus pieni di bambini senza dimora per farli mangiare a pranzo. Comprava vestiti usati e glieli regalava. Dava soldi per riparare porte, comprare letti e televisori nelle case di riposo per gli anziani delle comunità di El Sauce e di Granada, dov’è nato. “‘El Loco’ regalava soldi. Li dava ai vicini. Adesso non ha nulla”, ha detto Griselada Ruíz, vicina di Mayorga e madre di Ana, la ragazza che il pugile accompagnava a scuola.

Mayorga ha sempre voluto combattere. Da bambino giocava alla lotta. Da adolescente si azzuffava con tutti. Crescendo, trovò nella boxe l’unica speranza per uscire dalla povertà. Entrò nell’accademia sportiva dell’esercito sandinista. Poi fece carriera da pugile in Costa Rica. Combatté in quel paese fino a quando vinse il titolo mondiale, portando la bandiera della Costa Rica insieme a quella del Nicaragua.

Ma quando diventò famoso, si dichiarò “più nicaraguense del gallo pinto”.

In Costa Rica perse i primi due combattimenti anche a causa della vita difficile che conduceva. Lavorava come buttafuori in un club notturno. Le notti prima degli incontri si faceva la doccia con l’acqua fredda, e poi aveva i crampi sul ring. Mangiava quello che gli capitava e al momento dello scontro aveva dolori allo stomaco. È un miracolo che io sia uscito vivo dai suoi primi incontri da professionista, mi ha detto.

La lista dei desideri

In fin dei conti la sua carriera non è andata male. È stato due volte campione mondiale di pugilato per le categorie welter e superwelter. Ha vinto tre combattimenti per il titolo mondiale su otto. Ha ottenuto 32 vittorie, di cui 26 per knock out, e ha perso in dodici occasioni. Queste sono le ragioni per cui il 21 maggio 2022 Mayorga è entrato nella Hall of fame dello sport nicaraguense.

L’ultima volta che ci ho parlato, nel 2016, Mayorga era sul divano nella sua stanza. Con l’avambraccio si puliva la bocca piena di lardo . Diceva di essere contento di aver soddisfatto i suoi desideri. Era uno degli insegnamenti del suocero, che ogni volta che vedeva passare un corteo funebre di un povero diceva: “Ecco un ‘quanto vorrei’. Ha passato la vita a desiderare un sacco di cose e non le ha mai avute”.

Accomodandosi sul divano, Mayorga aveva concluso: “Grazie a dio non sono diventato un ‘quanto vorrei’. Mi sono tolto tutti gli sfizi”. Poi aveva aggiunto con un sorriso: “E non mi pento di nulla”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1465 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati