Il romanzo d’esordio di Hiroko Oyamada lancia un’accusa alla cultura del lavoro contemporanea. Ambientato nel Giappone moderno, ben noto per il superlavoro sottopagato, il romanzo evoca il peggio dei centri tecnologici della Silicon valley e pone la domanda: come possiamo trovare un significato se l’insignificanza domina le nostre giornate? Raccontando la storia da tre prospettive intrecciate, Oyamada presenta vari aspetti del lavoro. Nonostante ci si riferisca costantemente alla “fabbrica”, in realtà nulla sembra essere prodotto all’interno del colossale complesso autonomo in cui è ambientato il romanzo. Vanta una serie tentacolare di edifici completi di alloggi per il personale di livello superiore, una foresta e un ponte che attraversa un vasto specchio d’acqua. I lavoratori che ci vengono presentati sono coinvolti nella macchina aziendale della noia. Oyamada ha creato un ecosistema titanico della vita lavorativa moderna, compreso l’emergere di strane nuove specie, prodotte dagli schemi insensati e snervanti dell’esistenza dalle nove alle cinque. Il libro mette il lettore al lavoro, spingendolo fuori dalla passività verso un pensiero critico attivo. La metafora si espande all’interno di se stessa in una sorta di ciclo di feedback: in che modo gli umani costruiscono il significato? Come agisce o reagisce la natura alle nostre costruzioni? Cosa investe il lavoro di significato? Anche se vincolato dalla fatica realistica, il romanzo s’immerge nel surreale fino alla soddisfacente conclusione circolare. KrisKosaka, The Japan Times
Ambientato nella Nigeria degli anni zero, il romanzo segue Nonso, un allevatore di polli innamorato di Ndali, una farmacista tirocinante conosciuta dopo che il fidanzato di lunga data di lei ha sposato un’altra donna. Quando i ricchi genitori di Ndali si fissano con la mancanza d’istruzione di Nonso, la risposta un po’ avventata – come unico erede della sua famiglia – del ragazzo è quella di vendere tutto per pagarsi gli studi universitari a Cipro, agendo su suggerimento di un ex compagno di classe che fa da intermediario e che gli chiede i proventi della vendita in modo da poter pagare l’iscrizione in anticipo. Quando Nonso arriva a Cipro scopre di essere stato truffato. Così comincia un’ardua ricerca di risarcimento, mentre i passanti gli gridano “schiavo”, chiedono di toccargli i capelli e lo scambiano per un calciatore brasiliano. Quando un’infermiera tedesca lo prende sotto la sua ala, le cose migliorano, finché il marito geloso manda a monte il piano di Nonso di tornare a casa, con o senza laurea. Tutto questo è narrato dallo spirito guardiano di Nonso, che racconta la vita del suo protetto agli altri spiriti in una sorta di tribunale ultraterreno basato sul mito igbo. Obioma gioca sull’implausibilità della narrazione onnisciente rendendola direttamente magica. Le cose possono sempre peggiorare per Nonso, un perenne capro espiatorio che, nel finale, diventa improvvisamente carnefice. L’avvincente tragicommedia di Obioma sonda dolorosamente i pericoli del vittimismo. Anthony Cummins, The Guardian
In una prosa sensuale, Swarup intreccia storie d’amore. Al centro del suo libro c’è l’amore tra uomo e donna, o forse uomo e dea, perché la donna che Girija Prasad ama si chiama Chanda Devi ed è venerata da coloro che la circondano: legge la mente, vede i fantasmi, capisce cosa dicono gli alberi e doma gli elefanti. La loro passione luminosa brilla al di là della coppia, abbracciando la Terra intera. Girija Prasad mostra alla sua amata le grotte, le foreste e le acque delle Andamane. Lei traduce per lui il linguaggio degli alberi, e custodisce le storie che i fantasmi le raccontano. Terremoti e tempeste devastanti modellano la vita di Girija Prasad, il suo amore per Chanda Devi, la nascita di sua figlia, e la sua stessa fine. La narrazione di Swarup segue poi Mary, che ha cresciuto la figlia di Girija Prasad dopo la morte di Chanda Devi. Il figlio di Mary, tornato in Birmania da bambino, si è ribattezzato Platone, è diventato un rivoluzionario ed è stato imprigionato. Mary va in Birmania per farlo uscire di prigione. Questo amore di una madre per suo figlio è raccontato in varie forme. È doloroso e reale. Attraverso queste interazioni umane sentiamo il battito insistente della Terra e del suo futuro. Latha Anantharaman, The Hindu
Aurélia Michel analizza, nel corso di più di cinque secoli, la costituzione di un “ordine sociale globale” articolato intorno alla “razza”. Una categoria mentale che è sopravvissuta alla schiavitù, alla colonizzazione e alle guerre mondiali. È la fonte delle grandi disuguaglianze tra nord e sud, come quelle quotidiane che rendono più difficile l’accesso all’alloggio o al lavoro in base al colore della pelle o al suono del nome. Se la “razza” struttura ancora largamente il mondo contemporaneo, nelle sue grandi linee come nei dettagli, è perché non è solo un materiale ideologico, né l’arma dei soli razzisti. I suoi effetti continui sono il risultato di processi storici concreti che si possono far risalire al medioevo. Per dimostrarlo, in questo brillante saggio, Michel traccia i modi in cui l’ascesa dell’occidente bianco è inseparabile dalle forme di lavoro forzato, imposte dalla tratta degli schiavi e poi dalla colonizzazione. Una volta abolita la schiavitù è stata la “razza” a prendere il sopravvento, perpetuando la logica dello schiavismo. Il libro si conclude con un appello a liberarci da queste finzioni di cui le nostre società si trascinano l’eredità. André Loez, Le Monde
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